Da New York arrivano le immagini purtroppo familiari degli ospedali e dei morti. Come sta vivendo questa esperienza?
«Vivo la vostra stessa incertezza sul futuro. Un mese fa noi americani sapevamo che l’Italia era colpita dall’epidemia, eppure eravamo increduli. Le autorità americane hanno paragonato il virus a Pearl Harbour e all’11 settembre, ma non sono d’accordo, quelli erano episodi finiti nel tempo, questa pandemia è un processo che non sappiamo dove ci condurrà. C’è un’alienazione dalla realtà. Le propongo un’analogia curiosa. Io non leggo gli ebook, non uso kindle, perché non ho il peso delle pagine, non so a che punto del libro mi trovo. Anche ora non ho la consapevolezza di dove mi trovo, mi sento alienato».
Come passa le sue giornate? Com’è cambiata la sua vita?
«Poco fa hanno suonato alla porta, un mio vicino che non avevo mai incontrato mi ha regalato una pianta per ringraziarmi per quello che sto facendo. Da quando è cominciato l’isolamento ho messo fuori dalla porta una lavagna, ogni giorno scelgo una poesia e la attacco sopra per gli altri. Non lo avevo mai fatto prima. So che è un gesto insignificante, ma di questi giorni non potrò mai dimenticare quanto siano importanti i piccoli gesti insignificanti».
«A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto», si legge nel rituale della Pasqua. Che Egitto stiamo vivendo?
«È pericoloso cercare nel coronavirus una redenzione, una liberazione, sotto forma di una lezione che dovremmo aver appreso. Ma sto certamente imparando molte cose. La pandemia non colpisce tutti in eguale maniera. In Usa non esiste un servizio sanitario nazionale, gli americani non possono permettersi di perdere un giorno di lavoro. A New York i ricchi se ne sono andati, sono rimasti quelli che rischiano di rimanere disoccupati. Nella cena di Pèsach ho pensato che non siamo solo noi a essere colpiti, c’è chi lo è più duramente. Per tutti loro spero in una liberazione».
Da anni sostiene che c’è una relazione tra il cambiamento climatico e gli allevamenti intensivi degli animali. C’è questo all’origine della pandemia?
«Non lo dico io, lo dice l’Oms: è così. Decine di migliaia di animali vengono costretti in stanzoni, con antibiotici che li mantengono produttivi, ma distruggono le loro difese immunitarie. Sono le condizioni perfette per creare un virus che prima o poi migrerà verso l’essere umano. Così è stato per la febbre spagnola del 1918, per l’aviaria e per la peste suina. Il coronavirus non conosce né i confini tra nazioni né tra specie. È venuto il momento di ascoltare questo segnale di allarme per ripensare interamente la nostra catena alimentare».
Come giudica il comportamento di Trump?
«Le risparmio quello che dico di lui da sempre: sono stanco di rispondere su Trump e anche di pensarci. Non so neppure se ci saranno le elezioni a novembre. Vivo in un Paese che ha perso il senso della verità, la capacità di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è non vero. Non credo che si potrà eleggere il presidente andando ai seggi, se si voterà sarà solo per via telematica. Ma in caso di vittoria di Trump io e tutti gli altri che non lo hanno votato non crederemo a questo risultato, e la vittoria del candidato democratico non sarà riconosciuta dai repubblicani. La sua domanda acuisce molto il mio senso di esilio dal tempo!».
In “Molto forte, incredibilmente vicino” (Guanda, 2005) lei parla del lutto lasciato da una morte provocata dall’attacco alle Twin Towers. È quanto stanno vivendo a New York e in Italia migliaia di persone: la separazione dai cari, la scomparsa dei corpi. Cosa resterà di tutto questo?
«È la tragedia più grande: la solitudine di chi soffre in un letto di ospedale e non può essere visitato da nessuno e dei suoi familiari che non possono vederlo. Spero che chi è rimasto abbia attorno a sé una comunità, una rete di sostegno. Dovremo trovare i modi di essere in ogni caso presenti gli uni per gli altri, nell’immediatezza della malattia, del ricovero, della perdita, del lutto, e poi dopo».
«Mi piacciono gli abbracci, la ricomposizione, la fine della mancanza di qualcuno». È tutto quello che ci manca. Quando torneremo ad abbracciarci, saremo migliori?
«Non so come saremo, parlo per me. Io credo che apprezzerò ancora di più ad esempio una conversazione come questa. Abbiamo sorriso poco, e ancora meno riso, ma lei ha fatto il suo mestiere, io il mio, e abbiamo incluso una comunità di lettori.
Avremo bisogno di più comunità, di più senso di appartenenza. E sarò ancora più appassionatamente riconoscente per tutte le comunità e appartenenze che fanno parte della mia vita».
Quale poesia ha messo oggi sulla lavagna per i suoi vicini?
«È di Adam Zagajewski. Si intitola: Prova a cantare il mondo mutilato:
“Ricorda le lunghe giornate di giugno /e le fragole, le gocce di vino rosé./ Le ortiche che metodiche ricoprivano/ le case abbandonate da chi ne fu cacciato./ Devi cantare il mondo mutilato...”».