la Repubblica, 11 aprile 2020
Che cosa meritano gli italiani
Non ci siamo presentati all’appuntamento con la sciagura del coronavirus nelle condizioni migliori. Eravamo un Paese fragile il 21 febbraio, quando il primo contagiato di Codogno è spuntato sulla collina ad annunciare l’invasione che da lì a poco si sarebbe scatenata. Siamo un Paese ancora più fragile adesso, presi di mira da una pandemia che in 100 giorni ha fatto 100 mila morti, di cui diecimila concentrati nella sola Lombardia, uno su 10 nel mondo, la parte più affollata del cimitero allestito sulla Terra per questo maledetto 2020. Che dentro di noi, dentro ciascuno di noi, il sentimento dominante sia lo smarrimento è reazione umanamente comprensibile ma, a lungo andare, pericolosa. C’è sempre qualcuno o qualcosa che si attrezza per riempire i buchi di un corpo sociale stremato, magari promettendo guarigioni miracolose dietro le quali si nascondono cambiali insidiose.
Quando il morbo ha cominciato a invaderci, non ha trovato trincee robustissime. Eravamo e siamo ultimi per crescita del Pil nell’area Ue, in zona retrocessione per percentuale di laureati e di occupati, neanche in classifica per l’adeguamento all’era digitale.
Con una sanità pubblica sfibrata da tagli e ruberie. Con un governo nato in condizioni d’emergenza, composto da due forze maggiori congenitamente antitetiche (una di sistema, il Pd, l’altra anti-sistema, i Cinquestelle), chiamato a navigare in una congiuntura internazionale avversa. E con l’ombra corposa dei sovranismi, maggioranza sul territorio anche se all’opposizione in Parlamento, ad agitare ulteriormente le acque di un mare già tempestoso.
Il Covid 19 ci ha devastati sfondando barriere di burro, come fa di preferenza con i corpi più indifesi, per esempio quelli degli anziani. Proprio su questa categoria è cascato il peso più insopportabile, non solo per ragioni di debolezza fisiologica ma anche per scelte inumane, come stiamo abbondantemente documentando su questo giornale. La vergogna del Trivulzio di Milano e di tante altre residenze per anziani somiglia a quella dei campi di concentramento dove i meno adatti al lavoro venivano accompagnati ai famigerati stanzoni delle docce da cui non sarebbero più usciti. Si salvi chi serve. Qualcuno, prima o poi, dovrà renderne conto.
Come sarà necessario, per la ricostruzione prima di tutto morale della nostra comunità, rendere onore e soprattutto giustizia ai caduti e ai feriti sul fronte più esposto (medici, infermieri, personale sanitario), che si sono trovati a combattere un nemico alieno senza le difese necessarie per contenerlo, se non la propria abnegazione, parente stretta dell’eroismo civile. E lo stesso discorso vale per i sacerdoti, le suore, i volontari, e tutte le cellule di quel popolo generoso e infaticabile che si è attivato per dare forza a chi la perdeva, come sempre fa, come anche stavolta ha fatto, silenziosamente, senza mai mettere nel conto il rischio di pagare di persona.
Se siamo arrivati a questa Pasqua con una curva dei contagi che parrebbe aver finalmente imboccato la fase discendente, vuol dire che nonostante l’attacco a sorpresa e nonostante la nostra strutturale inadeguatezza a fronteggiare emergenze, qualcosa in questo Paese ha resistito, e di questo va dato atto anche a chi il Paese l’ha guidato in uno dei momenti più tragici della sua storia.
Paradossalmente, però, il momento più delicato viene adesso, con la devastazione che sembra acquietarsi e con l’imperativo di dover ripartire. Il risultato delle prime trattative serie con l’Europa è stato molto al di sotto delle nostre aspettative e anche delle nostre esigenze, anzi urgenze. I potenziali alleati si sono defilati e il fronte dell’“Italia si arrangi” ha proposto, se non ancora imposto, soluzioni neanche lontanamente all’altezza della sfida che ci attende: salvare la vita di una nazione, il cui quadro clinico, complice il virus, è ormai da terapia intensiva.
Se lo stato delle cose non cambierà presto e radicalmente (ma dubitarne è più che lecito), ci troveremo a dover affrontare da soli, con il nostro debito pubblico mostruoso e con una prospettiva di crescita sottozero, l’impresa quasi impossibile di dare un futuro prossimo credibile agli italiani. Con l’aggravante che, prostrati come siamo, la parte più conveniente del nostro tessuto produttivo e finanziario diventerà preda ambita e indifesa per speculatori, affaristi, alleati famelici e potentati suadenti, a cui non parrà vero allungare l’influenza su una porzione d’Europa strategica come quella che, per storia e collocazione geografica, rappresentiamo. Lo scenario peggiore è a un millimetro, il tempo per scongiurarlo è brevissimo.
Servirebbe quello che non abbiamo. Rinserrare le fila nel momento cruciale dove è in gioco la tenuta civile, ci spingeremmo a dire la “sopravvivenza”, di una certa idea dell’Italia. Un governo coeso, che è l’esatto contrario di quello che sembra lasciare in eredità uno dei più tormentosi venerdì di passione della nostra storia repubblicana. Una assunzione di responsabilità collettiva, senza calcoli né retropensieri elettorali, per presentare a un Paese che comincia pericolosamente a sbandare un elenco di cose che si possono fare e di cose che invece non si possono fare, spiegando con chiarezza le ragioni dei sì e dei no, sia in tema di limitazioni per ragioni di salute pubblica sia di finanziamenti realmente disponibili per sostenere l’aggravio della crisi.
Andrew Cuomo, governatore di New York, il 6 aprile, mentre il virus cominciava a sbranare la polpa della Grande Mela, si è rivolto così ai suoi concittadini: «Sarei felice di dirvi che finirà presto. Ma non posso. Questo è quello che vi prometto: continuerò a informarvi sui fatti e prenderò decisioni basate sulle evidenze della scienza e dei numeri. I newyorkesi non meritano niente di meno».
Neanche gli italiani meritano niente di meno. Il discorso mai così infervorato del presidente del Consiglio, giunto ieri con ore di ritardo all’appuntamento annunciato in tv, rivela che dietro le quinte della cabina di comando c’è più nervosismo di quanto il momento consentirebbe.
Parlando d’impeto e con composta foga, il Conte che ha evocato non meglio precisate «tenebre» e ha promesso battaglia in Europa per la causa italiana, ci farà passare una Pasqua sospesa. Le destre sono già in groppa al malcontento in contagiosa diffusione e la maggioranza si distingue per i distinguo.
Il virus sembra intenzionato a continuare la sua ritirata. Il timore è che dalle macerie che abbandonerà dietro la sua scia, invece di una laboriosa ricostruzione, cominci una danza confusa, popolata di volonterosi salvatori della patria ma anche di profittatori e di avvoltoi. Con il rischio che i primi lascino presto campo libero ai secondi e ai terzi.