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 2020  aprile 11 Sabato calendario

Un libro sui comportamenti animali e vegetali

Immaginate la scena. Un filosofo – che già di per sé genera un immaginario pensoso, e pure un po’ barboso. Un filosofo dicevamo, che se ne sta lì a riflettere sulla categoria del «vivente»: su come cioè noi esseri umani ci rapportiamo alle altre specie, sul posto dell’uomo in questa Terra, sulla condivisione della natura. Bene, ora sbarazzatevi di tutto quanto immaginato. Già, perché il filosofo in questione non se ne sta nella sua vetusta biblioteca, meditabondo e assorto. Sta invece sdraiato a terra, fra fango e fratte, nascosto e attento a non esser sottovento per non farsi tradire dal suo odore. Non ha pile di libri intorno a sé, non cerca citazioni ma fruga orme, scandaglia escrementi, esplora ecosistemi. Il filosofo insegue segni, indizi, marcature, odori; la sua attenzione è rivolta ai colori da parata e ai feromoni loquaci. 
Il filosofo in questione si chiama Baptiste Morizot, insegna all’Università di Marsiglia e nel suo avventuroso libro Sulla pista animale racconta questo suo lavoro. In francese si chiama pistage, noi lo rendiamo con tracciamento: si tratta di una riflessione non astratta sul mondo animale, un’immersione in quei territori quasi mai solcati (di certo non dai filosofi) per ottenere un punto di osservazione privilegiato. Ed è un’operazione non priva di fascino: da un lato perché si tratta di una maniera intima di approcciarsi all’oggetto del pensiero, cioè il vivente, gli animali nei loro habitat. 
Leggere i loro comportamenti significa infatti comprendere una maniera di esistere dell’animale. Dall’altro lato, se così si può dire, qui il pensiero di sporca le mani (e pure i piedi, a dire il vero). Morizot non sale sulla cima a contemplare il sublime, ma entra nelle foreste per indagare il mistero di quel mondo condiviso da noi e dalle altre specie animali. 
Ora, l’animalità, l’alterità dell’umano è un tema che va di gran moda – e come tutte le mode ha una sua retorica. Così come la «natura» e ciò che passa sotto il nome di Nature Writing. Ma Morizot non se ne cura, d’un colpo solo spazza via quell’universo simbolico che è l’invenzione della natura (espressione che dà il titolo a una meravigliosa biografia di von Humboldt uscita per la Luiss): poggiando sulle intuizioni dell’antropologo Philippe Descola, l’autore mostra come l’idea di natura sia una strana credenza degli occidentali, persino un feticcio della nostra civiltà, la quale nell’ultimo secolo almeno ha avuto un rapporto problematico, conflittuale e distruttivo con il mondo vivente che chiama «natura». 
Morizot ribalta questo punto di vista, ricordando quell’amara verità che tanto ci scoccia: noi esseri umani siamo animali, ed è proprio in quanto animali che ci interessa tracciare gli altri animali e scriverne le storie. 
Ecco allora perché Morizot va per sentieri, cerca le tracce di lupi, orsi, caprioli e linci e martore: vuol indagare gli altri esseri viventi e come abitano la terra, come si comporta la società dei vegetali, la microfauna cosmopolita che crea la vita dei suoli, le relazioni che hanno tra loro e con noi: i loro conflitti e le alleanze con gli usi umani dei territori. 
E per farlo usa quel paradigma indiziario postulato da Carlo Ginzburg, fatto della lettura di indizi, della comprensione dell’invisibile interpretando i dettagli rivelatori di queste strutture, infine trattando questi dettagli come oggetto filosofico. Del resto ogni specie rivela la sua maniera di esistere nelle sue tracce. 
Perciò ritroviamo Morizot passare una notte sull’altopiano di Canjuers, nel parco naturale del Verdon, insieme a un gregge di pecore in balia dei predatori. E i predatori qui sono i lupi. Si apposta, aspetta, infine avverte qualcosa e si muove sino a trovarsi «faccia a faccia» con il lupo. Oppure una decina di giorni nella steppa e al galoppo di un cavallo chirghiso, a spasso fra la fauna e la flora della riserva naturale del lago Song Kul, nel centro del Kirghizistan, fra localizzazione delle aree di nidificazione dell’aquila reale, conteggio degli avvoltoi dell’Himalaya, tracciamento dell’orso, monitoraggio del lupo e soprattutto la ricerca della pantera delle nevi, il «fantasma delle montagne». 
Infine a nord-ovest del Parco nazionale di Yellowstone, negli Stati Uniti: qui il nostro filosofo segue le enormi orme di un grizzly bruno fino a trovarlo, distante un centinaio di metri. Ha paura, giustamente. Ma per fortuna l’orso ha altro a cui pensare. Però c’è una lezione che Morizot trae (e noi con lui) dall’incontro con l’orso, o meglio dalla paura che questo incontro produce: e verte sullo status dell’orso come «mangiatore d’uomo». Espressione immemorabilmente toccante, che ci ricorda quanto scrive lo studioso David Quammen: di fronte ad animali del genere intratteniamo un rapporto di fascinazione e terrore, ed è così perché il fatto che siano mangiatori di esseri umani ci ricorda un aspetto della nostra condizione umana che abbiamo dimenticato, o meglio che abbiamo cercato di occultare. Ovvero che anche noi siamo carne. 
Secondo Morizot noi ci annoveriamo al di fuori del vivente, pensiamo di essere al di sopra dell’ecosistema, e questo perché banalmente siamo mangiatori di altri esseri viventi ma non siamo mangiati da nessuno. E per questo motivo crediamo di aver acquisito una posizione di eccezionalità in confronto al vivente. Poi però arriva l’orso, potenzialmente nostro mangiatore. E l’orso allora ci ricorda che forse dovremmo avere un rapporto meno psicotico con gli animali e con il territorio, la nostra Terra, cercando di coabitare con loro, senza lasciarsi mangiare, senza distruggere il loro e nostro pianeta. Gli animali, che pensiamo meno intelligenti, meno razionali, meno evoluti, lo sanno. Noi?