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 2020  aprile 11 Sabato calendario

Dino Campana vittima della madre anaffettiva

L’ispirazione poetica è un mito che non passa mai di moda. E non è certo l’unico. Spesso vita e arte si sovrappongono tentando di giustificare l’opera con una bizzarra esistenza, a scapito dei testi naturalmente. Ma niente da fare, non solo il lettore, talvolta anche gli studiosi si lasciano abbagliare da una vita leggendaria, da avventure rocambolesche o deliranti, direttamente proporzionali a un buon grado di consolazione. 
Quanti conoscono davvero i testi di Villon rispetto alle sue imprese spericolate? E lo stesso vale per Rimbaud, Verlaine, Pound, Whitman, Plath, Brodskij, Hemingway, Lorca, Neruda, Bukovsky e molti altri autori dall’esistere audace. Non è bene neppure ignorare le biografie, nella misura in cui chiariscono un contesto. Diverso è quando tali vite vengono manipolate con fini leggendari, anteponendo un significato alla scrittura. Si insiste sul lato romanzesco perché certo è bello pensare all’elezione della «diversità», del dolore, del genio folle e sregolato che ha il suo nobile risarcimento con opere immortali. Da qui le inesauribili connessioni tra poesia e caos, poesia e patimento, poesia e follia come se il poeta fosse lo stereotipo ideale di un individuo lagnoso e infelice. Leopardi ne sa qualcosa. 
Quanto a pasticci tra vita e arte, c’è chi ha fatto concorrenza al poeta di Recanati; l’ultima sua biografia si intitola Vita oscura e luminosa di Dino Campana, poeta, a cura di Gianni Turchetta. Un volume energico che altrettanto energicamente fa piazza pulita di certi cliché. A iniziare dall’infanzia infelice del poeta di Marradi, maltrattato da un ambiente insensibile. Di fatto la famiglia Campana era vicina a Dino, tanto da traslocare a Faenza per seguirne gli studi. 
Se proprio si vuole individuare una ferita, questa va cercata in quella madre – Fanny – che talvolta senza motivi spariva da casa per ricomparire alcuni giorni dopo. Forse da qui l’inizio di quelle fughe che sembrano (anche) una sorta di vendetta, eseguite con un obiettivo preciso: ti lascio io prima che mi lasci tu. La madre era piuttosto anaffettiva e non si può negare che ciò possa complicare i rapporti con le donne. Ma il curatore ci mostra anche come sia del tutto leggendario il mito di un Campana sessualmente casto. E leggendaria anche la sua somiglianza a Rimbaud, casomai a Verlaine. 
Gli stereotipi smontati sono parecchi. Turchetta lo fa con documenti alla mano e calibrando il peso di ognuno, di ogni testimonianza, di ogni analisi critica, di ogni lettera, aggiornando la bibliografia con i più recenti studi. L’autore dei Canti Orfici viaggia molto, è vero, lo fa a piedi, accettando qualsiasi lavoro per sopravvivere. Ma c’è dell’enfasi nella descrizione di questi spostamenti, spesso più brevi e più ravvicinati di quello che si crede. In lui quello che è certo sono le antitesi e le ambivalenze emotive. Così il poeta ci appare ribelle, ma anche conformista e consapevole di esserlo, senza nulla togliere alla sua vocazione libertaria. 
Chi lo vuole esclusivamente nomade e dedito alla vita nei boschi dovrà ricredersi. I documenti attestano un Campana urbanissimo, frequentatore accanito di biblioteche – a Firenze come a Ginevra – dove indaga pure la psicoanalisi con molto anticipo rispetto alla sua diffusione in Italia. E infatti propone un articolo sull’argomento a Soffici, che lo ignora, ma questo già si sapeva. Turchetta non usa i guanti per altre meschinità intellettuali e sottolinea inoltre come il bisogno di rinnovamento della sua poetica non abbia mai coinciso con proclami da avanguardia. Semmai coincideva con una fedeltà incondizionata alla tradizione. Vengono soprattutto ricalibrate le opinioni sull’eccessivo variantismo quale conseguenza di instabilità mentale. In realtà modificare, cambiare, limare sono «la condizione normale della scrittura artistica», a meno che, dopo aver visionato le correzioni manoscritte di Proust, Gadda o Musil, non riteniamo pazzi pure loro. 
La poesia per Campana era, piuttosto, l’unico modo per controllare il proprio squilibrio psichico; spesso ammette di riuscire a scrivere solo quando sta bene, com’è normale che sia, ma è duro a morire il preconcetto di un Campana poeta perché matto, quasi a voler smentire «l’incompatibilità gemellare dell’opera e della follia» di cui ci parla Foucault. Ed è qui la parte più interessante del saggio, la più tenace nel disegnarne un nuovo profilo, nell’evidenziare non solo la lucidità inflessibile della sua poesia, ma anche tutta la componente di gioia (non solo di morte) e la straordinaria modernità. Perché questo folle e luminoso poeta di Marradi, non è altro che il simbolo dell’uomo moderno sempre in fuga dalle sue inquietudini, ma è anche un emigrato, emarginato, clandestino, sempre precario. Insomma un’identità già liquida che ci indica le tenebre, ma anche una felicità possibile. Canti Orfici è «un’opera che valorizza senza sosta l’esistente e il mondo», scriveva Mario Luzi. Valorizza noi. La sua poesia continua a parlarci non perché «strana» o «diversa». Ma perché ci assomiglia.