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 2020  aprile 11 Sabato calendario

Confessioni di Romain Gary prima di suicidarsi

«Mi chiedete di raccontare un poco la mia vita, con la scusa che ne ho una, ma io non ne sono tanto sicuro, perché credo soprattutto che sia la vita ad avere noi, a possederci». C’è tutto Romain Gary nelle prime parole della lunga intervista con radio Canada, andata in onda nel febbraio del 1982 e ora pubblicata da Neri Pozza, titolo Il senso della mia vita. Il 2 dicembre dello stesso anno lo scrittore si sarebbe ucciso, nel suo appartamento parigino, dopo aver mandato all’editore Vita e morte di Emile Ajar, l’ultima scheggia di autobiografia che terminava con un saluto beffardo: «Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie»: e soprattutto che svelava un segreto, l’esistenza cioè di uno pseudonimo con cui aveva firmato fra il ’74 e il ’79 quattro romanzi, in competizione con se stesso. Lui aveva vinto un Goncourt nel 1956 (con Le radici del cielo); il giovane «arrabbiato», il suo doppio, Ajar replicò trionfalmente nel 1975 con La vita davanti a sé. 
Nella conversazione radiofonica, com’è ovvio, non c’è il minimo riferimento a tutto ciò. C’è un accenno pudico e dolente alla scomparsa di Jean Seberg, la seconda moglie da cui aveva divorziato nel ’70, indimenticabile attrice icona della Nouvelle Vague (basti pensare a Fino all’ultimo respiro, il film di Godard), suicida nell’agosto del ’79, poco prima che venisse registrata l’intervista. Gary ne parla con affetto e pudore: «non la potevo aiutare e in un certo senso mi sono arreso senza mai smettere di occuparmi di lei». Non sapremo mai se ci sia un rapporto tra due gesti estremi a così poca distanza di tempo, né se in quel periodo lui già avesse deciso l’addio. Nell’intervista stava dosando l’edificio della sua leggenda critica ed esistenziale, o se vogliamo quello che definì il suo «romanzo totale», oltre i singoli libri.
Gli piaceva sottolineare il riferimento a Wagner, ma non è detto che in realtà avesse voluto piuttosto in mente golfo mistico al cui centro era la sua debordante personalità. Ebreo russo di origine lituane nato Roman Kacew e ribattezzatosi in Francia, più francese di qualsiasi francese, eroe di guerra (come Saint’Exupery e il grande amico André Malraux), dandy va da sé, elegantissimo e provocatorio, carisma indiscutibile, devozione assidua - stilnovistica, giocosa, e carnale - all’idea stessa di donna, il suo personaggio giganteggia in un gioco perenne fra euforia e malinconia, tra la figura costruita e il teatro segreto del sé, ora, alluso, ora appena mostrato, per subito dopo fuggirne con un gioco di prestigio retorico. Ci sono episodi forti e significativi (come l’adesione a «France Libre», il fronte, l’aviazione, la scrittura nelle baracche tra un volo e l’altro, ma anche tutto ciò che riguarda la madre) ed altri dove realtà e commedia un poco si confondono: come quando narra di un tentativo di ricatto a Sofia, dove era addetto d’ambasciata, da parte di agenti sovietici.
Gli mostrarono una foto di lui dopo l’amore – ovviamente con una graziosa spia – minacciando di renderla pubblica. S’indignò, dice: perché in essa veniva ritratto «dopo» l’amplesso, e il suo nudo rilassato era un insulto all’immagine del francese nel mondo. Ovvero: «Queste foto non mi fanno onore», tuonò. Chiese un altro set, in modo da essere immortalato «prima», in tutta la gloria del suo desiderio, e gli agenti batterono in ritirata. Non importa che sia del tutto vero: è una scheggia del suo «romanzo totale», come lo sono quelle tenerissime e appassionate sulla madre. Mina, donna di ferro, aveva già in Russia l’ideale della Francia come Paese della libertà. Gli predisse che di quel grande Paese sarebbe diventato scrittore e ambasciatore (e venne accontentata su entrambi i fronti), emigrò, fece mille lavori e infine, quando il figlio era in guerra, sul punto di morire vergò una serie di biglietti che un’amica gli avrebbe spedito nel tempo dalla Svizzera, con regolarità. Il giovane aviatore continuò così a ricevere posta, incoraggiamenti e amore. Scoprì solo nel ’45, tornato a Nizza, che lei non c’era più; da ormai tre anni. 
Gary ha parlato molto di sé, soprattutto in La promessa dell’alba e in La notte sarà calma (entrambi tradotti per Neri Pozza, che sta riproponendo la sua opera) ma questa intervista non è certo ripetitiva. E’ un momento di (alta) sincerità romanzesca, come avviene ad esempio nella storiella del camaleonte: «Se si mette il camaleonte su un tappeto rosso, diventa rosso. Se si mette il camaleonte su un tappeto verde, diventa verde» e così via, raccontò una volta a De Gaulle, per lui una figura venerata e quasi paterna. Ma «se si è messo il camaleonte su un tartan scozzese multicolore, il camaleonte – questa la conclusone - è impazzito. Il generale de Gaulle ha riso molto e mi ha detto: Nel caso suo, non è impazzito, è diventato uno scrittore francese».