Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2020
Petrolio, tagli insufficienti e silenzio dell’Europa
Tolte le tasse, la benzina sul mercato internazionale costa 14 centesimi di euro al litro, meno dell’acqua. C’è troppo petrolio in giro, come è capitato altre volte, mai con tale intensità però. Il blocco da pandemia ha distrutto domanda in aprile per oltre 20 milioni di barili giorno, più del 20% del totale e l’ultimo accordo Opec allargato, per 10 milioni di tagli, non basta. Dopo un mese di prezzi in caduta libera, Russia e Arabia Saudita si sono ravveduti e ora, invece di litigare su 0,3 milioni, si spartiscono alla pari un taglio da 5 milioni. Con gli altri hanno portato il taglio totale a 10 milioni barili giorno, con il Messico che solo dopo le rassicurazioni americane ha accettato di partecipare. Dagli Stati Uniti, però, servirebbe un impegno maggiore, perché sono il primo produttore mondiale, con 13 milioni barili giorno, e sono quelli che più hanno contribuito al presente eccesso. Vero è che, grazie ai maggiori costi, con prezzi così bassi hanno già ridotto di 0,6 milioni, rapidità di aggiustamento che Trump ha spacciato come suo contributo all’accordo, da lui voluto, fra sauditi e russi. Alla Casa Bianca stimano che nei prossimi mesi la produzione scenderà spontaneamente di 2 milioni, senza specificare, però, con quali prezzi. Molti in Texas vorrebbero un’azione più decisa, fra questi uno dei tre commissari della Texas Railroad Commission. Martedì terrà un’audizione sulla possibilità di ripristinare controlli alla produzione sui singoli pozzi, in base ad una vecchia regolazione che risale agli anni ’20, usata l’ultima volta nel 1973. Basterebbe, in realtà, che si applicassero normative ambientali più stringenti, di fatto sconosciute negli Usa, per ridurre subito di un 20% i ritmi estrattivi. Che Trump diventi ambientalista è improbabile, ma, d’altra parte, fa fatica ad imporre limitazioni di produzione a livello federale che vanno contro le leggi antitrust, quelle dello Sherman Act del 1890, applicate in maniera severa per la prima volta nel 1911 proprio contro l’industria petrolifera, quella della Standard Oil di Rockefeller. Peggio sarebbe che ricorresse a tariffe sulle importazioni, ipotesi a cui ha accennato, per difendere i lavoratori del Texas e per tutelare quell’indipendenza petrolifera, solo di recente raggiunta, che tutti i presidenti, da Nixon in poi, avevano inutilmente cercato. Anche ipotizzando un contributo americano di 2-3 milioni, sommato a quello dell’Opec allargato, non si andrebbe oltre i 13 milioni, ancora troppo poco rispetto a crollo di 20 della domanda.
Qui entrano in gioco i paesi consumatori, quelli riuniti all’interno dell’International Energy Agency, voluta sempre da Nixon nel 1974 per contrastare, poi dialogare, con l’Opec. Dopo tanti tentativi questa è l’occasione buona, all’interno del G20 che si è concluso ieri sera. I consumatori devono comprare petrolio da destinare a scorte e da riutilizzare quando si tornerà a normalità. Gli Stati Uniti l’hanno in parte già fatto, l’India e la Corea del Sud hanno confermato simili azioni, mentre la freddezza europea imbarazza, perché crede che possa fare a meno del petrolio fra pochi anni. Evitare il crollo del barile sotto i 10 dollari è nell’interesse dell’Europa per tre ragioni. Primo, il petrolio è, con il 38% del totale, di gran lunga la prima fonte a copertura della sua domanda di energia e, se si distrugge capacità produttiva di petrolio, i prezzi potrebbero schizzare fra qualche mese quando i consumi rimbalzeranno. Secondo, perché si aiuta la Russia, nostro importante vicino, e il Medio Oriente, solo di poco più lontano, aree che devono rimanere stabili. Terzo, perché anche la transizione energetica, tanto cara alla politica europea per la questione climatica, ha bisogno di certezze e un barile a 10 dollari uccide anche le fonti alternative. L’energia è un ambito di economia reale, ciò da cui ripartire per guardare al futuro con ottimismo e coraggio.