Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2020
Storia degli interventi statali in tempo di crisi
Contributi di solidarietà, prelievi forzosi, patrimoniali. Nella storia del nostro paese abbondano precedenti di interventi diretti dello Stato sui redditi e sui patrimoni degli italiani, motivati da situazioni di criticità o di vera e propria emergenza, anch’essi eventi tutt’altro che rari e per questo ben presenti nella nostra memoria. Quello proposto ora dal Pd tecnicamente si configura come un contributo di solidarietà motivato dalla grave crisi provocata dal coronavirus, e diretto ai redditi superiori agli 80mila euro annui. Si applicherebbe dunque secondo il criterio della proporzionalità alle fasce di reddito che superino tale soglia. Non è dunque un nuovo tributo come l’eurotassa che il governo Prodi varò nel 1996 (poi restituita dal governo D’Alema al 60%) che fruttò 4.300 miliardi delle vecchie lire. Si collocherebbe piuttosto in linea con il contributo di solidarietà sulle cosiddette “pensioni d’oro” disposto a partire dal 2019 con durata quinquennale sui redditi superiori ai 100mila euro lordi, articolato in cinque fasce: 15% sulla parte di assegno superiore a 100mila euro, 25% tra 130mila e 200mila euro, 30% tra 200mila e 350mila euro, 35% tra 350 e 500mila euro, 40% oltre tale soglia. Un intervento simile a quello varato dal governo Letta per il periodo 2014-2016 sulle pensioni con importi superiori ai 91mila euro: contributo del 6% da 91 a 130mila euro, del 12% da 130 a 195mila euro, 18% per gli importi superiori. Prima della stagione dei contributi di solidarietà, era andato in scena nel periodo della grave crisi seguita al 2008 il ben più corposo prelievo, di fatto una patrimoniale sugli immobili, contenuto nel decreto “salva-Italia” disposto dal governo Monti nel dicembre del 2011, quando lo spread tra i nostri Btp e gli omologhi bond tedeschi aveva toccato il picco dei 575 punti base. Stiamo parlando dell’Imu sulla prima casa che ha garantito nel 2012 un gettito aggiuntivo di 23,7 miliardi, magna pars della manovra messa in atto per evitare il default della nostra economia. Prima ancora occorre risalire al 1992, nel pieno della gravissima crisi finanziaria che culminò con l’uscita della Lira dal sistema di cambio europeo e con una pesante svalutazione. Al paese fu imposta dal governo Amato una manovra monstre da 92 mila miliardi delle vecchie lire. Era il settembre del 1992. L’antipasto era stato servito in luglio con il prelievo del 6 per mille sui depositi bancari. «Imposte, null’altro che imposte», aveva preconizzato Quintino Sella il 7 giugno del 1862 nell’illustrare in Parlamento la situazione delle disastrate casse del Regno d’Italia. Fu Pietro Bastogi, primo ministro delle Finanze del neonato Regno d’Italia a comunicare la decisione di incorporare i debiti degli ex Stati preunitari contratti in gran parte per far fronte alle spese militari. Decisione inevitabile per rassicurare i partner internazionali e gli investitori. Con l’istituzione del “Gran libro del debito pubblico italiano” cominciava in quel lontano 1861 la lunga marcia delle nostre finanze pubbliche.