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 2020  aprile 11 Sabato calendario

Biografia di Vittorio Colao (quattro articoli)

Ettore Livini, la Repubblica
Vittorio Colao, ex-amministratore delegato di Vodafone e uno dei cervelli in fuga più famosi d’Italia, torna a Roma per guidare la task-force che affiancherà il governo nella gestione dell’emergenza coronavirus. Un comitato con poteri molto dotato di ampie deleghe ministeriali e con un obiettivo ambizioso: disegnare assieme alla politica la strada per pilotare l’Italia fuori dalla crisi sanitaria e da quella economica.
Il “dream team” della ricostruzione è composto da 17 membri tra cui - oltre al 58enne manager bresciano - l’economista dell’University College London Mariana Mazzucato, l’ex presidente dell’Istat (e ministro del lavoro con Enrico Letta) Enrico Giovannini, il presidente Cdp Giovanni Gorno Tempini, Raffaella Sadun - professoressa ad Harvard - Filomena Maggino di Benessere Italia, l’avvocato Stefano Simontacchi, Enrico Moretti che insegna economia a Berkeley, la professoressa di psicologia sociale Elisabetta Camussi, Roberto Cingolani di Leonardo, Riccardo Cristadoro di Banca d’Italia, Giuseppe Falco partner di Boston consulting,Franco Focareta dell’Università di Bologna, l’esperto di disabilità Giampiero Griffo, il commercialista Riccardo Ranalli, il sociologo Marino Regini e il presidente della società di epidemiologia psichiatrica Fabrisio Starace.
Colao porta in dote alla task-force l’esperienza maturata alla guida di un colosso come Vodafone, che ha trasformato da operatore telefonico in un gruppo integrato nel digitale e nei media. Dopo la laurea in Bocconi e un Mba ad Harvard, Colao ha mosso i primi passi in Morgan Stanley e McKinsey per approdare nel 1996 in Omnitel Pronto Italia, secondo operatore di telefonia cellulare italiano nato da una costola dell’Olivetti. Sono gli anni del boom del mobile e delle bolle della new economy. Colao e Omnitel li cavalcano alla grande, la società viene comperata prima da Mannesmann poi da Vodafone dove lui diventa responsabile per l’Europa Meridionale, il Medio Oriente e l’Africa. Il primo ritorno in patria di Colao – appassionato ciclista con nelle gambe diverse migliaia di chilometri l’anno – è del 2004. Quando il salotto buono della finanza italiana lo chiama a fare da “paciere” in Rcs. Operazione complessa, vista l’eterogeneità (allora) dei soci. Due anni dopo infatti il manager lascia dopo uno scontro sull’acquisto in Spagna (“troppo costosa”, diceva lui e il tempo gli ha dato ragione) della casa editrice Recoletos.
Nel 2006 torna così all’”ovile” di Vodafone dove sale la scala gerarchica fino alla poltrona di amministratore delegato. Colao ha mandato in porto una gigantesca riconversione industriale del colosso delle tlc: ha venduto per 130 miliardi la partecipazione nell’americana Verizon nel 2013, puntato sull’India e chiuso l’esperienza inglese acquisendo quelle attività nei media di Liberty che hanno cambiato definitivamente la pelle di Vodafone.
Dopo le dimissioni nel 2018 da Vodafone, Colao è stato candidato a molte poltrone tra cui quella di supermanager per le Olimpiadi di Milano e Cortina. Ma lui si è ritagliato solo un ruolo come consulente di un fondo di private equity, General Atlantic. Prima della nomina che lo riporterà in Italia per dare una mano al Paese in uno dei momenti più complessi del dopoguerra.

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Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano
Chi lo conosce bene racconta che Vittorio Colao è un uomo così metodicamente rigoroso che, in vista di un incontro importante, scrive in testa agli appunti sulle cose da dire anche “Buongiorno, come sta?”. In questa Italia – che conta i morti dovuti all’approssimazione e all’attesa del “colpo di culo” come strategia – conforta che il governo affidi il futuro immediato e prossimo dell’economia a un manager così ottusamente serio.
Colao è anche, a suo modo e grazie a Dio, l’immagine rovesciata di ciò che non funziona in Italia: è l’unico manager di autentico successo internazionale, però è sconosciuto ai più perché giornali e tv servilmente decantano solo i meriti di chi manda avanti le aziende dei loro editori. Quindi corre l’obbligo di informare i lettori che il governo ha scelto il (fino a prova contraria) più bravo. E, particolare che non guasta, l’uomo è ormai ricchissimo grazie alle centinaia di milioni (tracciabili) accumulati successo dopo successo fino a due anni fa, quando ha lasciato la Vodafone.
Nato a Brescia 58 anni fa, naja come ufficiale dei Carabinieri e soprattutto carabiniere dentro, Colao è stato allevato nel gigante della consulenza McKinsey come molti manager di successo, da Corrado Passera ad Alessandro Profumo. Cresce rapidamente: a 35 anni è direttore generale di Omnitel, futura Vodafone, nel 1999 è numero uno.
Nel 2004 c’è il suo incontro ravvicinato e tempestoso con il capitalismo all’italiana. Lo nominano amministratore delegato della Rcs-Corriere della Sera, ma subito capisce che, in quel litigioso salotto cosiddetto buono, agli azionisti che l’hanno voluto (Intesa Sanpaolo e Fiat) si contrappongono quelli che non lo sopportano. Il suo computer subisce l’assalto del Tiger Team: gli abilissimi hacker di Telecom Italia riescono a copiare tutti i documenti del suo hard disk prima di finire in galera.
Agli occhi di certi imprenditori italo-furbetti Colao ha due difetti che insieme sviluppano una miscela esplosiva: è onesto e affronta gli ostacoli con la rigidità del carabiniere. Infatti gliela fanno pagare, poco più di un anno dopo la nomina: si mette di traverso sull’acquisto dell’editore spagnolo Recoletos, operazione suicida che verrà portata a termine dal successore Antonello Perricone e innescherà l’autodistruzione di Rcs. I padroni, inflessibili, gli dimezzano le deleghe e lui si dimette.
A Londra i capi di Vodafone non aspettavano altro. Nel giro di 24 ore lo richiamano offrendogli il posto di capo dell’Europa e numero due mondiale. Non risulta che a nessuno dei nostri manager tromboni con l’intervista solenne sempre in canna sia mai stato offerto un posto al vertice di una grande multinazionale. In meno di due anni, Colao nel 2008 diventa amministratore delegato: un italiano a capo del maggior gruppo mondiale della telefonia mobile, 50 miliardi di fatturato, per lui una trentina di milioni all’anno. Nel 2013 il capolavoro: vende alla Verizon la quota di Vodafone nella telefonia Usa, e porta 130 miliardi nelle casse del colosso di Londra. Per lui c’è un premio sufficiente a rendere ricca la famiglia per le prossime generazioni. E a rassicurarci che non tornerà in Italia per fare la cresta sulle mascherine.

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Mario Ajello, Il MessaggeroIl suo motto coincide con la prima regola di chi fa surf: «Non cavalcare l’onda, mai dominarla. Perché se cerchi di dominarla, ti massacra». Seguendo questa condotta, Vittorio Colao s’è sempre trovato bene. Ora nell’impegno per la ricostruzione del Paese il manager bresciano classe 61, bresciano doc tendenza Bazoli, bocconiano, diventato celebre come numero uno di Vodafone ma non solo lì (McKinsey, Omnitel, Rcs, oggi nei board di Verizon e di Unilever, più un ruolo nel grande fondo americano General Atlantic e nel comitato esecutivo della Bocconi), seguirà l’onda nel senso che si farà carico a suo modo, unendo l’approccio economico a quello sociale, in un mix che gli appartiene, di un’impresa tutt’altro che semplice. Per la quale serve un capitano appassionatamente onnivoro ed estremamente votato alla prova. E Colao lo è. «Mi metto al servizio del Paese», e così ha deciso di dirigere l’organismo della «ricostruzione», con poteri e competenze interministeriali, e che già a dalla dicitura evoca scenari post-bellici. E rimanda a quell’Italia che viene da lontano, laboriosa, concentrata e vogliosa di riemergere che è poi l’Italia in cui Colao si rispecchia e che rispecchia Colao. Il quale è stato da giovane un carabiniere e di fatto lo è ancora. Nel senso, come sanno quelli che lo conoscono bene, d’integrità assoluta. Anche per questo piace assai al presidente Mattarella, che lo ha voluto coinvolgere in questa sfida nazionale. Quando parla dell’Italia, Colao ne parla per esempio così: «Dobbiamo aprirci a nuovi orizzonti di impiego, nella tutela dell’ambiente e del territorio, nella manutenzione dei beni pubblici, nell’accesso a sanità e servizi sociali. Possiamo investire nei cosiddetti common goods e nei lavori collegati. Tutto ciò non avverrà d’incanto. Ma solo con un ruolo attivo dello Stato – che deve investire nella scuola, nella sanità, nell’ambiente e non rilevare aziende in crisi – e della società civile. Solo con più educazione, studio e senso civico riusciremo a gestire trasformazioni tecnologiche con un rilevante effetto sui corpi sociali». Non sarebbe un programma perfetto, ma per ora soltanto ideale, per la fase 2 che sta per cominciare, per un Paese che si deve rialzare? Intanto Colao ha subito presentato il suo piano di lavoro in sette punti al premier Conte. 
Gli impacci burocratici che purtroppo appartengono al nostro sistema non faciliteranno l’opera di Colao, che ascolta ma è un decisionista. Quando lavorava a Omnitel il suo soprannome era l’Internazionale (Caio era il Genio, Scaglia il Mago) in quanto il manager bresciano ha uno sguardo tutt’altro che angusto sulle questioni che tratta. E la ricostruzione italiana rientra in un contesto di rapporti con l’Europa e in una dimensione di cambiamento degli scenari generali nei quali un manager come lui si trova a proprio agio. Anche perché a suo modo è una persona intrisa di politica, come passione. Inutile cercare di catalogarlo dal punto di vista dello schieramento partitico. È un cattolico democratico (tendenza giansenista, direbbero i più raffinati) ma non un democristiano né un buonista (quando vuole, ruggisce!). Un riformista molto meritocratico: crede nel primato della competenza e insieme ha una spiccata sensibilità sociale. Detesta gli schemi, ecco. Di lui raccontano che in Vodafone decise che i dirigenti dovessero passare un giorno all’anno dietro al banco di un punto vendita di cellulari e un altro in un call center a prendere telefonate.
È uno che cerca di capire, studia e prova le soluzioni. Sarà così anche adesso, e l’interlocuzione diretta con la politica è una sfida che lo incuriosisce ma è il primo a sapere che il Palazzo è pieno d’insidie. E lui non è certo un uomo di Palazzo. Se non lo faranno lavorare, andrà via e amici come prima. Detesta i salotti mondani (meglio la bici, il wind surf, la lettura) quasi quanto i convegni dai titoli ampollosi. La sua convinzione più radicata – molto in linea con il milieu bresciano da cui proviene – è che non ci sia futuro senza diffusione di benessere e istruzione. Ma anche questo non è un dogma, è solo un pezzo consistente di una visione del mondo che non è statica, e viceversa si aggiorna di continuo perché la sua curiosità, assicurano gli ammiratori, lavora h24. La curiosità degli altri, cioè anche nostra, è di vedere subito Colao al lavoro in quella che per lui è una «missione civile». E che per l’Italia è una grande speranza: rimuovere le macerie umane ed economiche dovute a un grande trauma e trovare le persone giuste per un’opera immane. 

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Marco Zatterin, La Stampa
La foto del profilo Facebook lo ritrae avvolto nel tricolore, con una bandiera di spessa tela grezza che gli fascia morbidamente il collo. La seconda immagine immortala Vittorio Colao impegnato sull’inseparabile bici Colnago in una corsa su strada, con la rituale casacca azzurra che non lascia dubbi sul senso di appartenenza. Quando si congedò da Vodafone, nell’ottobre 2018, si propose di «continuare la sfida per adeguarsi al cambiamento da un punto di vista diverso». Scelse Londra per vivere e l’America per lavorare, pur definendosi con ironia un «semi-pensionato». Ora l’emergenza virale rompe gli indugi e lo riporta a casa. Si torna a Roma. Per dare una mano a salvare l’Italia.

Il più corteggiato dei top manager nazionali ha accolto una sfida che altrove sarebbe solo difficile, mentre qui da noi assomiglia all’impossibile. Dovrà coordinare la definizione di un modello per la gestione economica e sociale del Paese nella fase di uscita dal dramma virale. «Trovare una ricetta per riaprire in modo intelligente», riassume un banchiere che lo conosce bene, persuaso che «abbia il profilo giusto e i contatti necessari, nonché la conoscenza del mondo dei dati», cruciale in questa fase. «Mi dicono è stata un’idea Quirinale», sussurra, prima del sospiro finale: «Speriamo che lo lascino lavorare; nei palazzi della Capitale la confusione regna sovrana».
La ricetta sarà tecnologica, per cominciare. Bresciano, classe 1961, sangue calabrese, europeo per vocazione, bocconiano, decolla venticinquenne con McKinsey e dieci anni più tardi diviene direttore generale di Omnitel, il primo grande rivale della Telecom e azienda destinata a essere assorbita da Vodafone, gruppo di cui Colao diventerà ceo nel 2008: non senza una educativa esperienza biennale in Rcs, dove entrò come «risanatore» e uscì sotto il «fuoco amico» di alcuni azionisti pesanti. Dopo un decennio al vertice del gruppo telefonico londinese, nel 2018 decise che fosse normale una discontinuità all’anglosassone, dopo abbondanti esercizi passati a distribuire dividendi a piene mani. Era il tempo adatto per una lunga vacanza in bici.
Da allora è entrato nel board di Unilever e in quello di Verizon, conglomerata che conosceva bene avendo trattato nel 2013 la cessione delle azioni americane detenute da Vodafone. Doveva aver lasciato un buon ricordo, lì come nella sua università che pure lo ha chiamato nel consiglio. A un altro sarebbe bastato e forse pure a lui, l’uomo dei 50 mila chilometri sulle due ruote. Ma le cose cambiano. Si è tenuto alla larga dalle sirene della politica che lo volevano nelle partecipazioni statali. Poi è arrivato il virus cinese, ha colpito l’Italia e falciato a centinaia anche nella sua Brescia. «Non dimenticate che è un ex carabiniere», dice serio il banchiere amico: «Ha un profondo senso della Patria».
La tecnologia, si diceva. In un articolo apparso sul Corriere della sera in marzo, Colao ha sfidato il genio di Yuval Harari mettendo in dubbio la convinzione dello storico israeliano sulla pericolosità della sorveglianza sociale come antidoto per il Covid. La tesi, in questo caso, era che per Europa e Italia sarebbe un errore non usare i dati. L’unico modo per ridurre le vittime gli pareva il blocco istantaneo seguito da allentamenti guardinghi. «Martello e danza», ovvero tenere la gente a casa mentre con azioni selettive e mirate si procede alla liberazione sulla base del rischio di contagio. Certo che non si può riaprire «indiscriminatamente».
Il top manager eurobresciano, da appassionato di windsurf non teme le acque agitate. Userà i dati. Elaborerà una cyber-cura. Affronterà le diseguaglianze. Seminerà l’esigenza di un pensare europeo indispensabile per una soluzione globale alla crisi sanitaria. Lavorerà nella convinzione che il rilancio non possa che avvenire «con un ruolo attivo dello stato e della società civile». Per questo proverà con la sua squadra a organizzare l’inorganizzabile: l’Italia.