La Stampa, 10 aprile 2020
Intervista alla poetessa Mariangela Gualtieri
«Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontani un metro». L’ultimo verso di una poesia totale, Nove Marzo Duemilaventi. Comparsa quel giorno, di primo mattino, sulla rivista online doppiozero.com. E da allora condivisa come un fenomeno pop sui social network, in radio e sui giornali, tradotta all’estero. A scriverla Mariangela Gualtieri, poetessa (ultima raccolta Quando non morivo, Einaudi), drammaturga e fondatrice con Cesare Ronconi del Teatro Valdoca. Un mese dopo, racconta che lo spirito di quei versi non è sfiorito, «perché mai come ora mi sento parte di un grande coro».
Perché quella poesia?
«Ho cercato di dare voce al sentire di molti, gli stessi che in questi giorni sono stranamente con me in ogni istante, anche se sono tutti fisicamente lontani, anche se sto molto da sola».
Era stata una sua idea?
«Da giorni ricevevo telefonate di amici che mi chiedevano parole con cui sostenere l’angoscia. Ma le parole arrivano quando vogliono loro. La mattina del 9 marzo mi sono svegliata con quella urgenza e inquietudine che a volte precedono la scrittura. Ai primi di marzo c’erano solo le parole dell’informazione e uno strano vuoto di pensiero».
Lei come percepisce le parole di questo tempo?
«Sono molto grata a chi, rischiando non poco, ci informa. Ma credo si crei una sorta di dipendenza, il tentativo di placare un panico ascoltando di continuo i notiziari. Lo capisco ma so che la lingua corrente non ce la può fare a colmare il baratro su cui siamo affacciati. Occorre la poesia, o la filosofia. O il silenzio. Io mi limito a un tg la sera e puntualmente mi commuovo».
Qual era il sentimento prevalente durante la scrittura?
«Quando scrivo versi sono in uno stato di grande attenzione. Se entra in gioco il sentimento, non è buona scrittura quella che rimane sulla pagina. Il sentimento deve esserci stato prima, e di certo prima c’erano stati commozione, pietà, sconcerto, inquietudine. E una forte empatia, mai sentita così intensamente fra me e tutti gli altri. Ma in scrittura il mio stato è imperturbato, in un ascolto attento, quasi in allerta dentro un viaggio pericoloso».
Che cosa vuol dire scrivere una poesia sull’attualità?
«È la prima volta che con i miei versi ho sentito il bisogno di entrare in dialogo con quello che lei definisce un fatto di attualità. Ma mai era accaduto che un evento sconvolgesse il destino di tutti, mescolando individuo e specie. Mai c’era stata un’ombra così pervadente, onnipresente. Credo resti in ognuno una inquietudine di fondo, come se il corpo sentisse il dolore di tutti e non potesse sottrarsi».
In questo mese lo «strano vuoto di pensiero» è stato riempito?
«In parte rimarrà perché siamo di fronte a un grande ignoto».
Lei come riempie la quarantena?
«Mi sono ributtata a capofitto su libri scientifici che ho amato. Mi sono venute in soccorso parole di amici poeti e scrittori. Sempre le parole dei morti, cioè dei classici. Ma me ne sto anche molto in silenzio, cammino per il bosco - vivo in campagna, vicino a Cesena - resto incantata da un cielo blu e pulito come non avevo mai visto, dall’assenza di aerei e di rumore. Da come la vita pare possa tranquillamente fare a meno di noi».
Quali classici?
«Ho ritrovato Ungaretti che è tornato molto vicino, quasi come ai tempi del liceo. Il porto sepolto, con quel suo sentimento di perdita, versi scritti in trincea, vicino a compagni moribondi. Il grande soccorritore è per me sempre Dante, soprattutto il suo Paradiso. Mi sono dilettata come sempre, quando posso, nella lettura del dizionario di italiano, una delle mie letture preferite».
Com’era il suo 8 marzo: a cosa lavorava?
«Stavamo lavorando intorno a Pinocchio e io lo stavo riscrivendo, secondo i dettami del regista Cesare Ronconi e della scena che cominciava a prendere forma. Poi avrei trascorso due mesi molto intensi con varie collaborazioni, da Virgilio Sieni a Mario Brunello, col Requiem di Silvia Colasanti a Roma, ma tutto è sospeso. Non mi è dispiaciuto fermarmi, ma pensare ai teatri chiusi mi affligge non poco. Una sorta di lutto».
Lei come immagina il 9 marzo 2021?
«Poiché il virus segnala una grave disarmonia fra noi e il resto, non credo si possa tornare alla normalità di prima, perché era profondamente squilibrata. Il mio 9 marzo 2021 lo immagino dentro un ritmo di vita più lento, più umano, più rispettoso e innamorato di tutto il resto, più felice. Se faccio un sogno, lo faccio in grande».
Che ne sarà della sua poesia?
«Quello che può capitare a questi miei versi è che, passato il momento, risuonino in altro modo, perdano intensità. Quando questo accade significa che non si trattava di buoni versi, e allora è giusto che il tempo li cancelli. Speriamo che invece restino».