Corriere della Sera, 9 aprile 2020
Le donazioni dei miliardari
Bill Gates, Jeff Bezos e Michael Dell si impegnano a versare 100 milioni di dollari ciascuno per lo sviluppo di vaccini anti Covid-19 e per sostenere le food bank che donano cibo a chi è rimasto senza reddito. La fondazione di Michael Bloomberg spende 40 milioni di dollari nella sua battaglia contro la diffusione dell’infezione soprattutto in Africa. Mark Zuckerberg mette sul piatto della ricerca scientifica 25 milioni e, anche se il suo impegno per diffondere con varie iniziative di Facebook e Instagram la consapevolezza sui rischi del virus è molto elogiato, in Rete viene accusato di tirchieria: troppo piccola la donazione rispetto a un patrimonio personale che sfiora i 60 miliardi di dollari. Tanto più che nel frattempo il capo di Twitter e della piattaforma di pagamenti Square, Jack Dorsey, «investe» nella filantropia antivirus un miliardo di dollari, quasi un terzo del suo patrimonio.
Come sempre in tempi di catastrofi, i miliardari scendono in campo per dare una mano e tentare di sopperire a carenze di governi che, colti di sorpresa, faticano a mettere in campo soccorsi adeguati.
Accade soprattutto in America dove la formazione di enormi concentrazioni di ricchezza, unita alla politica di defiscalizzazione delle donazioni, ha prodotto una vera e propria industria della beneficenza, ormai molto consolidata fino al punto di trasformare quello di fundraiser, il mestiere della raccolta di fondi di beneficenza, in una professione diffusa e quotata quanto quella di avvocato o commercialista.
Si riapre un vecchio dibattito: È giusto? È efficace? A che titolo gente capace e di successo, ma non eletta da nessuno prende decisioni che incidono su scelte pubbliche in campi come istruzione e sanità? Non sarebbe meglio far pagare più tasse ai miliardari consentendo agli Stati di avere più risorse per l’assistenza o la ricerca pubblica?
L’obiezione, ovviamente, è che burocrazie statali e clientele politiche sperperano o, comunque, usano queste risorse in modo poco efficiente. Qui l’esempio più nitido è quello di Bill Gates: il suo impegno personale e finanziariamente massiccio è stato decisivo per sconfiggere alcune malattie endemiche in Africa. E Gates era stato anche il primo, in una conferenza del 2105, ad avvertire che il mondo stava andando, impreparato, verso epidemie sempre più gravi.
Ma quella del fondatore di Microsoft è un’eccezione: un miliardario che ha abbandonato l’attività imprenditoriale dedicandosi totalmente alla filantropia e alle malattie virali. In quasi tutti gli altri casi i filantropi continuano anche ad essere imprenditori, spesso investono in filantropia senza avere le idee chiare sui loro obiettivi sociali né sugli strumenti alla loro portata. E l’investimento filantropico, per quanto sincero, non è del tutto disinteressato: migliora l’immagine dell’impresa che lo fa, rendendo magari meno stringente lo scrutinio delle autorità di controllo e della stessa stampa.
Non c’è dubbio che davanti alle difficoltà di un governo americano incapace di reperire velocemente mascherine, camici, ventilatori polmonari e tamponi per i test, l’intervento (non sempre filantropico) delle imprese serve. Ma sono in tanti a pensare che questo mosaico di azioni non può sostituire un sistema pubblico di controllo della salute dei cittadini.
Cresciuto nell’era digitale (imprenditori hi-tech improvvisamente ricchi, vogliosi di donare, ma impreparati a farlo sulla base dei bisogni reali) il problema dei limiti del ruolo della filantropia si pone in modo ancor più pressante nell’era del coronavirus. Le storie di ieri come quella dei 100 milioni destinati da Zuckerberg al sistema scolastico di Newark, in New Jersey, e malamente sprecati, sono superate da nuovi quesiti che vanno dalla trasparenza (Dorsey il suo miliardo lo mette in un fondo filantropico che non dice come usa le risorse anche se l’imprenditore promette che d’ora in poi le cose cambieranno) alla competenza (Trump che continua a tifare per l’uso di un farmaco ancora non testato per il virus, la clorochina, spinto da Larry Ellison di Oracle, suo amico e finanziatore, ma non un esperto di sanità).