La Stampa, 9 aprile 2020
1918, le memorie di un soldato guarito dalla Spagnola
Questa pandemia è come una guerra. Lo abbiamo sentito ripetere spesso: la metafora bellica è la più evocata, nel discorso pubblico, per rappresentare il tempo in cui viviamo. L’unica apparentemente in grado di dare una dimensione comprensibile alla gravità del momento. Eppure, salvo un piccolo segmento di anziani, le generazioni di persone che stanno affrontando il coronavirus chiuse dentro casa, la guerra nella loro vita non l’hanno mai conosciuta. Ma un secolo fa le due tragedie si sono addirittura sovrapposte su scala globale e abbattute sulla stessa popolazione.
È il 1918 quando nel mondo, Italia compresa, si combatte la Grande guerra e contestualmente si propaga la pandemia di Spagnola. «12 ottobre 1918. Mi sveglio il mattino pieno di dolori e con un freddo fortissimo. Vado a pigliare calore vicino alla stufa. Mi danno il rancio, ma mi disgusta. Mi mettono il termometro: 39 e mezzo. Non si può mai star bene, o l’una o l’altra. Al fronte il morale giù, e benissimo di salute, qui che il morale s’era risollevato, il fisico s’ammala. Ho una paura indemoniata che sia Spagnola». Nato a Napoli nel 1899, Francesco De Peppo ha combattuto la Prima guerra mondiale come artigliere, sul monte Coni Zugna in Trentino. In queste poche righe della sua testimonianza - oggi conservata all’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano – è racchiuso tutto il senso di incombenza della morte che tormentava i soldati al fronte per l’effetto congiunto dei due flagelli: dove non arrivavano le pallottole, fatalmente sembrava destinato ad arrivare il virus.
Anche perché le misure di quarantena erano improvvisate, e l’istinto di trasgredirle non conosce epoca, come dimostra lo stesso De Peppo quando transita dalle prime linee alle retrovie di Bovolone, presso Verona, poco prima di constatare il proprio contagio. «Un soldato della 107ª mi riconosce e mi porta in fureria. Stanno per darmi la branda, quando viene un Tenente, e dà ordine, venendo io dalla prima linea, ed infuriando la Spagnola, di farmi stare per 5 giorni in quarantena su di un soppalco. Mi fanno salire con una scala di legno, mi portano il rancio, e via la scala, rimanendo completamente isolato. Con una cordicella mi salgono il caffè, poi il rancio, una pagnotta, senza vedere nessuno. Le giornate sembrano eterne qui sopra. Chiedo un libro, e fortunatamente l’ottengo, potendo così passare meno noiosamente il tempo. Il quarto giorno mi combino con il soldato della 107ª, e me ne scendo un poco la sera a fare due passi, ma sono visto dal Tenente. Fortunatamente non mi ha detto nulla».
Sfortunatamente, invece, pochi giorni dopo arriva la sentenza. «Mi conducono, col carro della spesa, all’ospedale, dove mi visita un Tenente medico. Spagnola. Il termometro sale a 40, 40 e mezzo, e poi 40 e 9. Polmonite. Il mio stato s’aggrava, il Capitano medico non ha più speranze. Il terzo giorno vuole fare il telegramma urgente ai miei per farmeli salutare prima del gran viaggio; io lo prego di non farlo. Peggioro, comincia il delirio. Non voglio morire».
I presagi di morte che avevano accompagnato Francesco e tutti i soldati al fronte si trasformano improvvisamente in una realtà in divenire. «Muore il mio compagno di destra. Lo portano via in barella. Assisto a tutto lo spettacolo, credendo che lo stessero facendo a me. Mi pizzico, mi sporgo dal letto... no, hanno preso realmente l’altro. S’avvicina il Capitano e mi accarezza, poi non ricordo più nulla».
Ricorderà in seguito, Francesco, e ricostruirà appena possibile sul suo diario i passaggi salienti della guarigione, avvenuta con ogni probabilità grazie a una insperata reazione del suo organismo, più che per merito delle cure che gli vengono prestate. La medicina dell’epoca brancolava nel buio e le prescrizioni erano fantasiose o inappropriate. Si «somministravano» collane d’aglio o dosi massicce di cognac, oppure si ricorreva al chinino, efficace sì ma contro la malaria, o all’olio di ricino, che è invece un lassativo.
A Francesco tocca un salasso. «Mi scoprirono il braccio destro, e con un bisturi mi aprirono una vena nella piegatura. Neanche una goccia di sangue. Altro colpo di bisturi. Timida, dalla ferita, si affaccia una goccia di sangue; ne segue un’altra, un’altra, finché non esce a zampillo il sangue riempiendo a metà il recipiente».
Francesco ha 19 anni e un fisico robusto che reagisce all’infezione. «Resto svenuto un paio d’ore. Nel risvegliarmi, mi sento alquanto meglio: mi mettono il termometro, e segna ancora più di 40. La mattina dopo 39; mi visita il Capitano e mi trova molto migliorato, dicendomi che ora spera nella guarigione. La sera 38 e mezzo, poi 38; mi dicono che sono fuori pericolo».
Sono i primi giorni del novembre 1918 quando l’artigliere De Peppo sconfigge il virus della Spagnola, con le sue forze. Ora deve mettersi in piedi per lasciare posto ai malati più gravi e spostarsi in un ospedale vicino. Intanto spera di ricevere quella che, al pari della guarigione, resta la notizia più attesa. «Compro un giornale: "Grande offensiva su tutto il fronte, gli Austriaci indietreggiano in fuga disordinata". Che fosse realmente la fine della Guerra?».
È proprio così. La conferma arriva l’indomani con la firma dell’armistizio tra l’Italia e l’Austria-Ungheria. «4 novembre 1918. La mattina appresso mi svegliano grida. Sembra quasi come se fossero giunti gli Austriaci: è il finimondo! Alzo la testa dal letto, sembrano tutti impazziti. Chi si butta cuscini in faccia lì in camerata, chi grida e ride, chi piange, chi butta brande all’aria. Che cosa è successo?! La Guerra è finita, è vinta! Mi vesto in tutta fretta, e vado alla finestra. Tutto il paese è imbandierato. Quale commozione! Ancora debole per la grave malattia sono scoppiato in pianto, ma non pianto di dolore, ma di dolcezza, di gioia».
Tra il 1915 e il 1918 la Prima guerra mondiale ha ucciso circa 650 mila soldati italiani. Secondo alcune stime, nel nostro Paese, altrettanti tra soldati e civili se li è portati via la Spagnola, tra il 1918 e il 1920.
Francesco piange di gioia. Ha vinto la pandemia. E anche la guerra.