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 2020  aprile 09 Giovedì calendario

Mezzo secolo fa il dramma dell’Apollo 13

«Houston, abbiamo un problema». Una frase che è diventata quasi comune nel linguaggio popolare. Dagli Stati Uniti all’Italia. Tipica di quando si verifica un inconveniente, un contrattempo. “Houston, we’ve got a problem here” , che resiste da 50 anni, è rimasta persino quella ricordata più di altre, celebri, come “il piccolo passo” di Armstrong sulla Luna, oppure “ Vedo la Terra azzurra da quassù” di Gagarin. Anche perché, a differenza delle altre, dal tono trionfale, questa dava l’inizio della più celebre odissea spaziale della storia. Un’odissea che ha 50 anni, quella della terza missione di sbarco lunare, quella dell’Apollo 13, dall’11 al 17 aprile 1970.
Per certi aspetti, vista anche la conclusione, quella missione e quella straordinaria operazione di recupero dallo spazio, verrà definita «Un fallimento di grande successo», e «la vera ora di gloria della Nasa» dal direttore della missione da Houston, Gene Kranz. A bordo dell’Apollo 13, come per tutte le missioni lunari c’erano tre astronauti: James Lovell, il comandante, veterano alla sua quarta missione, Fred Haise, che doveva sbarcare sulla Luna con Lovell, che era alla prima missione così come il pilota dell’astronave Apollo, Jack Swigert.
La regione di allunaggio prevista era chiamata “Fra Mauro” , dal nome del grande cratere dedicato al monaco e cartografo veneziano del XV secolo, che per primo realizzò, dopo lunghe e attente osservazioni, una mappa della Luna considerata (per l’epoca) piuttosto dettagliata.
Dopo la partenza, da Cape Kennedy dell’11 aprile 1970 (alle 13,13 ora di Houston) e un viaggio iniziale da manuale, ecco che il 13 (sempre questo numero) di aprile arrivò il classico fulmine a ciel sereno. E così il 13 aprile, avvenne ciò che nessuno si aspettava, a due terzi dal viaggio Terra–Luna. Da Houston, con aria quasi annoiata, chiesero a Swigert di impartire il comando che rimescola il contenuto dei serbatoi di ossigeno; la navicella era rimasta per un po’ di tempo nella zona in ombra e si voleva evitare che le basse temperature creassero problemi al prezioso ossidante stivato nel modulo di servizio. «Standby» (State in attesa), comunicò Swigert. Poi, subito dopo, si sente una scarica fortissima, e dopo due secondi dice: «Ehi Houston, we have a problem here!».
«Say again – Ripetete» – risponde Houston. «Ehi Houston, abbiamo un problema» – ripeteva in seguito il comandante Lovell – «Registriamo un voltaggio insufficiente...». «Mi è rimasto impresso quel rumore strano che fece scuotere l’astronave» – ci ha ricordato una volta Fred Haise – «Un rumore sordo, metallico, causato dall’esplosione, che fece traballare tutto, dovevamo aggrapparci, c’era da sbattere la testa. Ricordo il suono stridente nella mia cuffia auriccolare. All’inizio fu impossibile. Non sapevamo cosa fosse successo. Eravamo convinti che un meteorite avesse colpito l’astronave: le possibilità, pur remote, esistevano. Il vero panico l’abbiamo avuto quando capimmo che le passeggiate mie e di Jim Lovell nella regione di Fra Mauro erano ormai lontane. Forse fu più questa delusione, che non la preoccupazione di tornare vivi a Terra. Non era neanche necessario guardare il pannello di controllo davanti a me, dov’erano elencate le norme da seguire per inserirsi in orbita lunare. Sapevo che in caso di perdita di una sola cella a combustibile bisognava rinunciare all’allunaggio. Niente discesa, niente esplorazione, nessuna orbita completa attorno alla Luna. Un’amarezza profonda».
Come rientrare a Terra?
«La navicella Apollo,
già prima del lancio battezzata, per una incredibile combinazione “Odissea”, era praticamente fuori uso. Si poteva però utilizzare il LEM, il modulo per lo sbarco lunare, come “scialuppa di salvataggio”, che con le sue scorte di energia ancora intatte poteva consentire al complesso Apollo– LEM di tornare. Il problema che preoccupava Houston e gli astronauti, erano le batterie e le riserve generali del modulo lunare, progettate per funzionare 44 ore, mentre ce ne volevano ancora circa 90 per tornare a casa».
Un veloce calcolo indicò che gli astronauti sarebbero rimasti privi di energia per molto tempo prima del rientro nell’atmosfera. Inoltre, scarseggiava l’ acqua per raffreddare i sistemi elettrici.
I momenti più difficili?
«Quando dodici ore prima del rientro avevo le ossa gelate e quasi ero paralizzato dal freddo – dice Haise, oggi 86enne ancora in ottima forma –. Ne avevo patito parecchio, così come Jim e Jack: fu la causa dell’infezione al rene. Poi salii nel modulo di comando dell’Apollo dove la temperatura era un po’ meno bassa: ci vollero quattro ore prima che smettessi di tremare».
Ha mai pensato di non tornare vivo?
«Erano momenti in cui la stanchezza e la concentrazione non te lo fanno pensare più di tanto. Ma in certi momenti ho pensato anche a quella possibilità». Fu dura. Tra correzioni di rotta per evitare che l’Apollo si perdesse nello spazio, e il basso livello di anidride carbonica che stava intossicando gli astronauti, in straordinaria cooperazione tra astronauti e centro di Houston, Apollo 13 riesce ad arrivare in prossimità della Terra, poi sgancia il glorioso LEM che li aveva salvati come scialuppa, e si tuffa negli strati atmosferici. C’era il terrore che l’esplosione avesse danneggiato lo scudo termico. Ma andò tutto bene. papa Paolo VI era in preghiera, e in alcune nazioni si pregava sul muro del pianto. L’ammaraggio perfetto nel Pacifico e l’arrivo degli elicotteri di recupero sancirono la conclusione trionfale del dramma. Ed era un venerdì 17.