Corriere della Sera, 8 aprile 2020
Da "Andrà tutto bene. Gli scrittori al tempo della quarantena" di autori vari (Garzanti)
Dalla finestra vedo persone con i cani. All’improvviso tutti i miei vicini se ne sono procurato uno. Passeggiano lentamente cercando di non richiamare l’attenzione. Anche i cani abbassano le orecchie con un’aria di clandestinità. A Madrid siamo al decimo giorno di isolamento e solo ai padroni dei cani viene concesso di uscire con una certa libertà, in modo che le povere bestie possano fare i loro bisogni e sgranchirsi le zampe. Il resto di noi si trascina dietro il carrello della spesa fingendo di andare al supermercato. Da un giorno all’altro la frenesia di adottare i nostri «amici più fedeli» ha svuotato un’associazione per i diritti degli animali e chi non è riuscito ad accaparrarsene uno vero è ricorso al trucco di tenere al guinzaglio un cane di peluche (proprio così) o allo stratagemma più meschino di tutti: camuffarsi da cane (come dimostra un video di YouTube). Su Internet circolano meme di cani che implorano i padroni di non prestarli ad altri amici o che si nascondono sfiniti per evitare di essere portati fuori per l’ennesima volta a fare una corsetta.
Chi avrebbe mai detto che quella che pensavamo essere una leggera febbre avrebbe provocato tanti morti, tanta angoscia. In questi giorni penso più che mai ai miei genitori. Sono morti cinque anni fa e non so in che modo, loro che erano nati durante la guerra civile, avrebbero affrontato una pandemia che li avrebbe coinvolti in prima persona. Quello che sta accadendo agli anziani è la cosa più crudele che abbia mai visto in vita mia: muoiono a decine negli ospizi senza aiuto, senza niente, soli e terrorizzati. È un’immagine insopportabile. Sulla stampa compare un signore di ottantasei anni che fugge da una casa di riposo. Dice: «Non è ancora la mia ora».
Che succede a questa società moderna, così fissata con la carta igienica? Non ci preoccupiamo degli anziani, li consideriamo inutili, prescindibili, un peso per le famiglie e per la previdenza sociale. Di fronte alla mancanza di respiratori nelle unità di terapia intensiva si prende la decisione di salvare i più giovani, non i più gravi. Un anziano vale meno di niente. Ci ostiniamo a non voler guardare oltre le loro rughe, la loro fragilità per non vedere uomini e donne che hanno lavorato, sofferto e riso, che hanno avuto figli e lottato per il futuro, per il nostro presente. Tanto progresso e tanta fibra ottica servono solo a dare per spacciati i deboli alla prima occasione. Società senz’anima. Sciocchi senza cuore quelli che tra voi sono responsabili di queste situazioni.
La pandemia si è fatta carico di aprirci gli occhi sulla debolezza del «primo mondo». Di un sistema politico, sociale, economico, sanitario ed etico fondato sulla cecità. «È facile vivere con gli occhi chiusi», cantava John Lennon. La leggerezza ci ha traditi. Nessuno di noi ha voluto aprire gli occhi di fronte a ciò che ci stava venendo addosso. Persino al decimo giorno di isolamento ci sono persone che proprio non riescono a non accogliere amici in casa, aziende che di fronte alla drammatica mancanza di mascherine e guanti costringono i loro dipendenti a lavorare mettendo a repentaglio la loro vita e quella di tutti gli altri. A fronte di questi comportamenti, la generosità smisurata degli operatori sanitari, che lavorano contro il tempo e in condizioni deplorevoli per salvarci. Sono loro gli eroi indiscussi e anche noi, seguendo l’esempio dei nostri amici italiani, tutte le sere, alle otto in punto, ci affacciamo alla finestra per applaudirli con emozione e rabbia perché non possiamo fare di più.
Il loro coraggio e la loro generosità ci fanno vergognare, noi che aspettiamo affacciati alla finestra che una folata di vento si porti via il virus, la negligenza, la mancanza di previsione e la prepotenza di crederci evoluti e invincibili. La radiografia globale ha rivelato che abbiamo le ossa marce. Essere generosi è complicato, bisogna vincere molte paure. Forse le mascherine che ho comprato in farmacia, le uniche due rimaste, servivano di più ad altre persone, ma io ho pensato soltanto che così sarei potuta andare a buttare la spazzatura più protetta. E adesso pretendo anche di trovare un termometro.
Da quando mia figlia si è lasciata alle spalle le febbri infantili, non ho mai sentito la mancanza di un termometro, ma ultimamente avverto un accaloramento poco naturale, qualcosa di simile alla febbre. Inizio a cercarne uno compulsivamente per tutta la casa. Mi ricordo che ne avevamo uno elettronico, molto comodo, dove sarà? Le piccole cose adesso diventano grandi. E se ho preso il maledetto coronavirus? Se non in palestra, allora l’ultima volta che sono stata in metro o al cinema? Avranno lavato bene i bicchieri e le posate al ristorante? E l’amico che mi ha dato un bacio salutandomi? E l’idraulico che ha toccato i rubinetti, il lavandino, e chissà cos’altro ancora? Una follia. Meno male che dispongo di alcol a novantasei gradi e ovatta per ripercorrere le impronte dell’idraulico e anche le nostre, di qualunque contatto o sfioramento avvenuto prima che il mondo diventasse così pericoloso. Ma in fondo come faccio a essere sicura che dopo aver portato la spesa a casa ed essermi tolta i guanti io non abbia toccato i sacchetti probabilmente contaminati? Metto sottosopra cassetti, mi sforzo di ricordare, cercando il maledetto termometro. Sento ancora più caldo e mi viene da tossire, ho una leggera nausea. Sarà questo?
Prendo un antipiretico e continuo a cercare. Mi atterrisce l’idea di chiamare la linea di emergenza o di presentarmi in un pronto soccorso saturo di pazienti. E poi come farei ad arrivarci? Infettando altre persone in metro o il tassista? Se c’è una cosa che ho sempre detestato è dare fastidio. Mi traumatizza interrompere lo scorrere della normalità. Ricordo un viaggio di quattordici giorni in America Latina. Andavo di paese in paese, di aereo in aereo, e a bordo di uno di essi avevo sentito un sudore freddo su tutto il corpo e avuto la sensazione di essere sul punto di perdere conoscenza; ma non è stato questo a spaventarmi, quanto piuttosto il timore di spezzare l’armonia del viaggio, che si dovesse lanciare l’allarme per me, che si cercasse un medico tra i passeggeri per me, che le assistenti di volo facessero uno sforzo extra per me o — lo scenario peggiore in assoluto — che l’aereo dovesse tornare all’aeroporto di partenza, per me. Così decisi di addormentarmi, o forse di svenire, con l’enorme fortuna che quando mi svegliai stavamo già atterrando, mi sentivo bene ed ero felice di non aver provocato una situazione drammatica. È stato un azzardo, ora lo so, per questo stavolta sono decisa a misurarmi la temperatura.
Traditi dalla leggerezza
L’emergenza ha svelato le debolezze del sistema. La leggerezza ci ha traditi. Nessuno di noi ha voluto aprire gli occhi su ciò che ci stava capitando
Vista la confusione che sto facendo nei cassetti, sulle mensole e negli armadi, mio marito mi chiede che cosa stia cercando. Lui è piuttosto ipocondriaco e di solito, al minimo segnale di allarme, si mette i pantaloni, la giacca, prende le chiavi della macchina e insiste per portarmi dal medico. Non gli dispiace interrompere lo scorrere della normalità. Se ne infischia dell’armonia. Non lo impressionano le crisi. È del Leone, è pieno di energia. Io invece sono contemplativa e preferisco rimandare a domani ciò che posso fare oggi, soprattutto le decisioni importanti. La realtà mi impressiona troppo per immergermici e cerco di ritardarla o di schivarla finché posso. «Cerco un libro», gli dico mentre infilo le dita tra i fili e i bottoni del cestino del cucito, casomai il termometro fosse finito lì un giorno lontano. «Che libro?» mi chiede lui. Tossisco a bassa voce per non metterlo in allarme, ha una vista e un udito sopraffini quando si tratta di individuare una qualunque alterazione fisica. E penso a quale lettura mi farebbe bene in questi momenti in cui tutti stanno leggendo La peste di Camus. «La montagna incantata», gli grido. È passato parecchio tempo da quando ho letto questo romanzo di Thomas Mann in cui, se non ricordo male, i termometri vengono custoditi in astucci di velluto e i malati conducono una vita invidiabile sulle Alpi svizzere.
Dopo un po’ arriva con il libro in mano. «Tieni», mi dice e poi resta a guardarmi. «Ti senti bene? Ti ho sentito tossire». «Non è niente», rispondo, «vado a comprare l’alcol in farmacia». Mi lancia un’occhiata sospettosa, che ignoro. Mi metto la mascherina, i guanti per lavare i piatti e mi lancio nel mondo radioattivo di fuori. Incrocio qualcun altro agghindato come me, addirittura con addosso anche una maschera da sci, come se il virus potesse entrare attraverso gli occhi. Non mi era venuto in mente. Incrocio anche uno che porta il cane a passeggio. Cane e padrone incedono con una certa eleganza, come se fossero implicitamente al di sopra del caos.
Davanti alla farmacia aspettiamo il nostro turno per entrare a un metro di distanza l’uno dall’altro. E, che fortuna, sono riusciti a trovarmi un termometro, di quelli di una volta, che bisogna agitare per far scendere il mercurio. Mi sento fortunata, più sicura, e torno a casa decisa a nasconderlo non appena sarò entrata. Un termometro, per un ipocondriaco, è come una bottiglia di whisky per un alcolizzato. Entro in bagno e lo tiro fuori dalla custodia. Mi ricorda la prima volta che ho fatto un test di gravidanza nella più assoluta intimità. Dall’altro lato della casa mio marito mi chiede se ho comprato l’alcol. Uff, me ne sono dimenticata. «Sììì», gli rispondo. Agito varie volte il termometro per far scendere il mercurio, ma non lo vedo. Sarà sceso a sufficienza? Ho sempre fatto fatica a vedere la colonnina di mercurio. È una lacuna nelle mie abilità personali: il mercurio mi resiste. Metto via il termometro disperata. Magari è difettoso. Meglio immergermi nella Montagna incantata fino all’ora di cena. Ci resta qualche surgelato, patate, uova e un pacco di spaghetti che sono riuscita a prendere al volo l’ultima volta che sono stata al supermercato. Non ho voglia di tornarci, ho fatto già uno sforzo enorme per andare in farmacia. Mi sto abituando a non uscire di casa, non mi attira neppure l’idea di guardare la strada dalla finestra. È incredibile come ci si abitui a tutto. Per quanto è anche vero che forse a noi scrittori questa clausura pesa meno che agli altri. Noi siamo abituati alla solitudine, a rinchiuderci volontariamente. Una cosa mostruosa, a dire il vero. Da questo isolamento usciranno romanzi a non finire, perché gli scrittori non sono più costretti a tenere nessuna conferenza né ad andare alle presentazioni né niente di niente. A casetta, come piace a noi.
Purtroppo non siamo in vacanza e molti sono disperati per ciò che sarà del loro lavoro, per come faranno a pagare l’affitto, per i risparmi che spariscono giorno dopo giorno da quel fondo d’investimento che sembrava sicuro. L’incertezza è angosciante. Perché abbiamo preso tanto alla leggera quello che succedeva in Cina? Perché non ci siamo visti riflessi nei nostri amici italiani? Siamo schiavi dell’egocentrismo, della letargia e dell’eccessiva sicurezza in noi stessi. Godiamo di tutte le sciocchezze immaginabili, ma non disponiamo delle più elementari mascherine né di respiratori o di dispositivi di protezione per i sanitari. L’economia crolla e tutto il sistema ne risente. La nostra speranza è che prima o poi finisca. È ovvio che finirà. Per il momento le nostre città si sono rilassate, l’aria si è purificata dall’inquinamento, i canali di Venezia sono di nuovo puliti. Torneremo in strade rinnovate, più azzurre, più aperte e si spera che cercheremo di conservare quest’aria nuova.
Di tanto in tanto, non per un virus o per qualche malattia, sarebbe bene che noi abitanti del pianeta ci chiudessimo in casa per quindici giorni, per lasciarlo riposare e respirare, per farlo resettare: sarebbe un segno di rispetto verso di lui e verso di noi.