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 2020  aprile 08 Mercoledì calendario

Intervista a Marco Tardelli

Per tutti, il suo urlo è diventato un’ico na: il simbolo dell’orgoglio italiano, lo stesso che servirà per uscire dall’epidemia. «Se quell’immagine è rimasta negli occhi della gente è perché raccontava la gioia di tutti», dice oggi Marco Tardelli: mito del Mundial ’82 e, da tecnico, guida dell’Under 21 campioned’Europa nel 2000.Oggi Tardelli è candidato a guidare l’Aic, l’Associazione calciatori, mentre giocatori e squadre litigano sul taglio degli stipendi.
Tardelli, in questo momento di crisi, il calcio può fare qualcosa per la collettività?
«Certo, può risolvere i propri problemi da solo. Senza chiedere niente a nessuno, senza aiuti di stato, utili per cose più serie».
Che effetto le fanno le critiche ai giocatori che non accettano di rinunciare agli stipendi?
«Dire "gli stipendi non si toccano" non è costruttivo. Molti giocatori hanno già fatto delle rinunce, in Italia e all’estero, la delibera della Serie A per tagliare dalle 2 alle 4 mensilità è una delegittimazione del sindacato. Ma la discussione con i club doveva avere basi diverse: sarebbe stato utile arrivarci avendo già stanziato un fondo di assistenza, di mutuo soccorso. L’Aic dev’essere la prima a mettere dentro i propri soldi per dare una mano ai calciatori delle categorie inferiori. So che nel bilancio 2018 erano stati accantonati alcuni milioni di euro per situazioni come questa. Penso che lo abbiano fatto anche negli anni successivi. E chiedo a Figc e Lega di A e Lega di B di partecipare magari con una quota degli stipendi eventualmente trattenuti. In C e D i giocatori mantengono famiglie con meno di 2 mila euro al mese».
L’idea dell’Aic era rinunciare a una mensilità dei giocatori di Serie A per devolverla alle categorie inferiori.
«Ma se chiedi devi essere il primo a dare: si è sempre detto ma poi non si è fatto. Stavolta serviva dare l’esempio, magari con la partecipazione di Fifa, Uefa o il FifPro, il sindacato internazionale».
In questo periodo starà parlando con molti tra giocatori e allenatori. Qual è il sentimento che prevale, in questa crisi?
« Hanno paura. E sarà così per tanto tempo, finché ci saranno tanti morti. Vedo che in Europa ognuno va per conto suo, in Belgio hanno chiuso il campionato, in Germania ancora s’allenano, credo sarebbe importante avere linee comuni».
Lotito sostiene che non ci siano rischi nel tornare ad allenarsi.
«Lasciamo parlare la scienza: se non c’è totale sicurezza, non si torni in campo. Il calcio è gioco di contatto, azzerare i rischi è impossibile. Non sappiamo neanche se chi ha avuto il virus tornerà perfettamente sano».
Eppure la Uefa spinge per finire campionati e coppe europee.
« Fa effetto sentire che Ceferin vorrebbe finire le coppe entro settembre. Come fai a fare un discorso così con oltre 500 morti al giorno? Vedo un accanimento nel voler finire la stagione: capisco i contratti da rispettare, dire chiudiamo tutto è difficile, ma se mandiamo in campo qualcuno rischiamo: accanirsi è pericoloso».
Ci si è fermati troppo tardi?
«Abbiamo avuto esempi molto negativi. Sembra che la partita europea dell’Atalanta col Valencia, ma anche quelle del Psg e del Liverpool possano aver favorito dei contagi. Non ci sono prove, ma ci si poteva fermare prima».
Le manca il calcio giocato?
«Sì certo, amo vederlo in tv. Allo stadio meno. Non li frequento da diversi anni, ho notato molta violenza verbale. Sono stadi diversi da come li ricordavo. È rimasta la passione di chi gioca, tra chi non gioca vedo troppa rabbia».
È un nostalgico quindi.
«Sì, mi manca il mio calcio. Era diverso, aveva un’altra anima. Era vicino ai tifosi, non virtualmente, non c’era l’addetto stampa che ti bloccava, parlavamo con i giornalisti, gestivamo i rapporti da soli. Era tutto più vero».
Foste stati voi in quarantena, avremmo visto foto di partite a carte, anziché alla playstation?
«Il mondo va avanti. I giocatori stanno sui social per i tifosi, che hanno voglia di vederli. È giusto, non condanno il cambiamento».
Da quale immagine le piacerebbe che l’Italia ripartisse dopo la tempesta?
«Vorrei un urlo di discontinuità.
Ritrovarci diversi, smettere di aggredirci l’un l’altro. E il calcio, la terza industria del Paese, deve riscoprire la solidarietà, tutelare le donne e lo sport di base. Abbiamo una responsabilità: forse saremo i primi a uscire dalla crisi, avremo il dovere di essere guida in Europa».
Senza aiuti pubblici.
«Mi ha fatto effetto il Liverpool, che aveva chiesto la cassa integrazione per i propri dipendenti non sportivi. È un problema etico: bisogna rispettare i propri dipendenti che non guadagnano quanto un calciatore. Ed è molto offensivo delle necessità delle persone. Il calcio produce intrattenimento e macina soldi, almeno al vertice non può dipendere da denaro pubblico».
Eppure danni ne ha subiti.
«L’impatto economico sarà molto alto e rischia di fare danni pari a quelli del virus. Ma qui ci lasciano la pelle i malati e pure chi cerca di aiutarli: non dimentichiamoci che la priori tà deve essere dare a loro i mezzi per non correre rischi».