La Stampa, 8 aprile 2020
1920, l’Europa a pezzi riparte da Mozart
«La mia casa è grande, imponente. Nessun’altra la eguaglia in città. Ho denaro, terreni, interessi e rendite. Alla mia tavola non voglio pasti da mendicanti». Così si compiace Jedermann («Ognuno»), il quarantenne ricco e scapolo protagonista del dramma omonimo in un atto di Hugo von Hofmannsthal che il 22 agosto 1920 inaugurò la prima edizione del Festival di Salisburgo. Un secolo dopo, l’edizione del centenario è appesa a un filo: già cancellati a causa della pandemia i Festival di Pasqua (che doveva svolgersi in questi giorni) e di Pentecoste, la decisione sulla possibilità di effettuare la rassegna estiva, prevista dal 18 luglio al 30 agosto, verrà presa entro il mese di maggio.
Nel 1920 l’Austria è un Paese prostrato; persa la guerra, dissolto l’Impero, stimate in due milioni le vittime dell’epidemia di Spagnola, che fece strage in particolare tra i soldati, indeboliti dalla fame e dalle sofferenze di quattro anni di conflitto. Il 10 settembre 1919 i rappresentanti del nuovo governo repubblicano avevano sottoscritto le severe condizioni stabilite dal Trattato di pace di Parigi, che imponeva pesanti debiti di guerra. La speranza di una nuova Austria e di una nuova Europa ricominciò dunque da un Festival; lo vogliono un compositore, Richard Strauss; un regista di teatro, Max Reinhardt, e un drammaturgo, Hoffmansthal. Scelgono Salisburgo - città allora di appena 40.000 abitanti - perché lì era nato Mozart, per eccellenza il musicista europeo di formazione, e per la collocazione geografica, nel cuore dell’Europa centrale, la più dilaniata dal conflitto appena concluso. Un’intuizione lungimirante e la più sostanziale, nel campo dell’organizzazione dello spettacolo dal vivo, avuta dagli artisti europei nel Novecento.
Si inizia con un dramma morale. Jedermann è la parabola, derivata dall’episodio evangelico del povero Lazzaro e del ricco Epulone e da un play inglese del 1400, di un uomo che ha programmato tutto nella propria vita: raggiungere la ricchezza, avere successo con le donne, esibire l’opulenza in sontuosi banchetti. A uno di questi, ospite non invitato, si presenta la Morte: «Il libro dei conti non è in ordine, troppi sono i tuoi debiti». Ognuno implora tempo: dieci anni, uno, un giorno, una notte almeno. La Morte gli concede un’ora. Tutti, parenti e servi, lo abbandonano, il diavolo sbuca dal forziere delle monete ed esulta: «Non eri tu il padrone delle tue ricchezze, il Soldo supremo era il tuo signore. . Dove te ne vai, ora, con la tua cupidigia?». Il suo destino è segnato; verrà una fede tardiva a sorreggerlo nel momento in cui scende nel sepolcro.
Ancora oggi, ogni anno, Jedermann viene allestito durante il Festival nella piazza del Duomo di Salisburgo. Ma è uno stanco tributo pagato all’idealità delle origini. Il Festival ha cambiato pelle. Stefan Zweig, che visse a lungo a Salisburgo prima della fuga forzata verso Londra, così scrive nel suo magnifico e doloroso libro di memorie Il mondo di ieri, pubblicato postumo nel 1942: «Il Festival di Salisburgo è diventato un’attrazione mondiale, come fossero le Olimpiadi dell’Arte dell’era moderna, dove tutte le nazioni competono per presentare i loro esiti migliori». Dopo la fine dell’occupazione nazista dell’Austria (a causa della quale Arturo Toscanini rifiutò ogni invito a dirigere) e della Seconda guerra mondiale, la riapertura del Festival di nuovo ebbe un forte valore simbolico. Oggi, ha conquistato un altro primato, quello dell’esclusività. L’opulento budget di 62 milioni di euro è garantito dai contributi statali, regionali e comunali, dal generoso sostegno di sponsor prestigiosi, dalla vendita dei costosi biglietti, appannaggio pressoché esclusivo di un pubblico elitario e autoreferenziale, lieto di ritrovare, ogni anno, sé stesso e i propri festosi riti sociali. Ma con l’ostentazione della diseguaglianza non è possibile giocare ancora: «Abbiamo capito (dovremmo aver capito) che l’uguaglianza non è un’amabile utopia ma un’esigenza esistenziale», ha scritto Jean-Luc Nancy su La Stampa del 3 aprile.
Per questo aspetto, la riflessione critica della dirigenza del Festival appare meno consapevole di quella di altre istituzioni europee. Se è vero che le migliori orchestre, i migliori direttori, solisti e cantanti, molti acclamati registi figurano regolarmente in cartellone, non altrettanto verificabile è la persuasione della presidente Helga Rabl-Stadler: «Il Festival rappresenta un progetto contro la crisi di significato, la perdita di valori, la crisi di identità dell’essere umano individuale come di intere nazioni». La sua principale identità, oggi, appare quella dell’autocompiacimento e del rispetto del main stream del gusto e delle mode. Dimenticando che il nume tutelare della città dove si svolge, Mozart, è stato un artista capace di riscrivere i codici formali del proprio tempo e di comporre opere complesse eppure capaci di rivolgersi a tutti. E che non ha mai avuto modo di esibire la propria opulenza.