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 2020  aprile 08 Mercoledì calendario

La denuncia del giudice Roia, guarito dal virus

Ha ancora un po’ di affanno per i postumi della polmonite da Covid-19, non per questo, dopo tre settimane di ricovero al Sacco e una di convalescenza, la voce di Fabio Roia, presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, ex componente del Csm, è meno ferma nel denunciare ciò che è stato fatto e, soprattutto, ciò che non è stato fatto nella lotta alla diffusione del contagio. 
Esperienza dura? 
«Mi reputo fortunato perché mi sono ammalato quando l’epidemia non era ancora così forte e sono stato ricoverato tempestivamente in un ospedale di grande professionalità dove ho ricevuto cure appropriate. Alla fine ce l’ho fatta, anche perché ho condiviso la disgrazia del coronavirus con mia moglie Adriana, magistrata anche lei presidente di sezione». 
Come vi siete infettati? 
«Non lo sappiamo. Certamente il contagio è avvenuto nel Palazzo di giustizia». 
Cosa glielo fa pensare? 
«Io e mia moglie, dopo il primo caso di Codogno, avevamo tagliato tutti i rapporti sociali, non partecipavamo più a seminari o riunioni, solo camere di consiglio e udienze seguendo le indicazioni generiche sulla distanza che venivano dal ministro della Salute. Il ministro della Giustizia ha fatto un grosso errore». 
Quale? 
«Dopo i primi casi, le prime zone rosse e il primo decreto del presidente del Consiglio sulla limitazione della libertà di circolazione dovevano essere adottate subito le misure prese solo dopo. Nel Palazzo di giustizia di Milano si muovono settemila persone al giorno, anche in ambienti ristretti dove non è possibile mantenere le distanze raccomandate. Dico questo perché i capi dei nostri uffici, che hanno solo responsabilità, doveri e nessun potere, avevano sollecitato fin da subito un intervento del ministro della Giustizia Bonafede, ma la richiesta è rimasta inascoltata. È stata una grave lacuna perché il contagio ha poi travolto magistrati, personale amministrativo e avvocati costretti a lavorare senza protezioni». 
Cosa si doveva fare? 
«Bisognava sospendere l’attività, come è stato fatto quando però i contagi già erano avvenuti. Adriana e io abbiamo fatto udienza fino a tre giorni prima della manifestazione dei sintomi, e dopo che siamo risultati positivi non sono stati fatti i tamponi ai giudici o al personale che aveva lavorato con noi. Sono solo stati messi in isolamento a casa senza sapere se erano stati contagiati o no. È pazzesco come si sviluppi un senso di colpa per la paura di avere contagiato inconsapevolmente colleghi e collaboratori». 
Come è cominciata? 
«I primi sintomi li ho avuti il 28 febbraio, mal di gola e un po’ di raucedine. Poi è esplosa la febbre, alta con mal di testa. Il 2 marzo fortunatamente il professor Giuliano Rizzardini, primario di terapia sub intensiva del Sacco, ha ritenuto di farci fare i tamponi, risultati drammaticamente positivi. Il giorno dopo siamo stati ricoverati nella stessa camera». 
Come stavate? 
«Io avevo una polmonite bilaterale con una febbre anche a 39 che ti devasta, ti spossa. Per farla scendere mi hanno dato un farmaco che mi causava allucinazioni. Una notte ho svegliato mia moglie perché avevo visto un cinese con un carretto luminoso che mi scaricava il coronavirus nel letto. Mi hanno fatto tutti i trattamenti antivirali conosciuti. Prima un farmaco che viene usato contro l’Aids, senza risultati, poi uno per l’Ebola, che ha dato un miglioramento, ma a dare la botta che ha tolto la febbre è stato il Tocilizumab, quello per l’artrite reumatoide.
Le cose sono migliorate e siamo passati dalla terapia sub intensiva in un reparto meno protetto. Ho avuto necessità di ossigeno ma, fortunatamente, mi è stato somministrato solo con una cannula nasale e non ho avuto bisogno di maschera, cpap o, ciò che più temevo, della rianimazione. Ho perso 7 chili».  
Alla fine, è andata bene. 
«Diciamo di sì. Mia moglie ha avuto febbre, fortissimi dolori muscolari e articolari e ha perso il gusto e l’olfatto. Io devo recuperare i livelli di saturazione. Devo ringraziare tanti medici. Oltre Rizzardini, uomo di corsia, di impatto, di studio e di strategia, il dottor Gianfranco Dedivitiis che in una delle due sere in cui ebbi un attacco di panico perché avevo la sensazione di non respirare, tentò di tranquillizzarmi. In queste situazioni la comunicazione è fondamentale, medici e infermieri hanno dimostrato di saper rassicurare rispondendo alle mie cento domande quotidiane, come ha fatto il dottor Ivano Faggioni. Ci sono riuscito anche grazie a mia moglie, alla nostra luna di miele al Sacco, come l’abbiamo chiamata. Abbiamo festeggiato così i nostri 25 anni di matrimonio. Mi ha sostenuto e aiutato anche a pregare, siamo cattolici, soprattutto nelle due notti di crisi. Senza di lei forse sarei crollato psicologicamente». 
È banale dire che è un’esperienza che segna? 
«E che fa comprendere molte cose». 
A partire da quali? 
«Che bisogna fare di più per gli altri e, con il senno di poi, il perché siano state fatte determinate scelte. Chi diceva che era solo un’influenza, ora dovrebbe essere espulso dalla comunità scientifica perché, se è vero che l’obiettivo era quello di non terrorizzare la gente, bisognava però responsabilizzarla. E chi, anche a livello politico, ha tentato di sdrammatizzare dicendo che bisognava far ripartire l’Italia, ha commesso un grave errore. Ricordo che il presidente della Lombardia Attilio Fontana fu dileggiato quando andò in tv con la mascherina. Stava rappresentando l’avvio di una tragedia che poi si è rivelata in tutta la sua drammaticità con centinaia e centinaia di persone decedute ogni giorno. Penso che qualcuno debba chiedere scusa, anche per i morti che questo dannato virus ha provocato». 
Quando tornerà al lavoro? 
«Non sarò più lo stesso. Prima di tornare a indossare la toga devo trovare un equilibrio che mi consenta di metabolizzare e superare la paura, l’angoscia del burrone della respirazione artificiale che molte volte ho sfiorato. Resta ancora la dipendenza psicologica da termometro e saturimetro legata alla febbre alta e alla mancanza di respiro. Non ho ancora trovato una serenità che mi faccia coniugare i drammi che ho sentito con la funzione di magistrato. Sento il bisogno di fare una giurisdizione di comprensione, di aiuto dei soggetti più deboli, di fare di più anche al di fuori dell’attività di magistrato». 

Nuove prospettive, allora? 
«È stata comunque una storia positiva, perché ce l’abbiamo fatta, ed è una storia di vicinanza e di affetto con mia moglie. È una storia di ringraziamento per una eccellenza di Milano come il Sacco e per i medici, angeli che mi hanno aiutato a ritrovare la capacità di lottare che a volte sembrava avessi perso».