ItaliaOggi, 7 aprile 2020
Come è nato il miracolo Eurospin
L a bottega si trovava nel rione di San Zeno, dove l’ultimo venerdì di carnevale del 1530, durante una terribile carestia, la fame del popolo veronese fu soddisfatta dal medico Tommaso da Vico, da allora celebrato come l’ostetrico del Papà del gnoco e del relativo Bacanal. Fin dalla più tenera infanzia, al piccolo Luigi, penultimo dei sette figli di Alessandro Mion, fu chiaro che nella sua vita non ci sarebbe stata alcuna differenza fra alimentari ed elementari. «Prima di andare a scuola, dovevo massaggiare il baccalà», rievoca divertito. «Presentarmi in aula con le mani e i vestiti impregnati di puzza dello stoccafisso non era un bel biglietto da visita».La sua famiglia santificava il venerdì, giorno dedicato al mangiare di magro, partecipando in comitiva alla messa delle 6 nel santuario di Tombetta intitolato a santa Teresa di Gesù Bambino. Dopodiché si trasferiva in bottega. Prima di alzare le saracinesche, allo scolaro toccava anche il compito d’impilare scatolette di sgombro e barattoli di conserva nelle cinque vetrine affacciate su piazzetta Portichetti, al numero civico 1. A questo negozio se ne affiancò ben presto un altro in corso Milano 132.
È cominciata così l’epopea dei Mion, oggi divenuti alimentaristi su scala industriale grazie al marchio Eurospin, leader italiano nel ramo discount con un fatturato di 6 miliardi di euro (aumentato del 114 per cento nell’ultimo decennio) e quarto nella classifica nazionale della grande distribuzione, stilata da Deloitte, dopo Conad (+4 posizioni), Coop (stabile) ed Esselunga (+4), con un balzo in avanti di ben 10 posti in graduatoria. Nell’ultimo quarto di secolo hanno aperto mediamente un supermercato a settimana. Fra Italia, isole comprese, e Slovenia, sono già arrivati a 1.180.
Dal 19 dicembre al 19 marzo hanno inaugurato nuovi supermarket a Chiari, Milano, Paternò, Desenzano, Lucca, Monte Urano, Latina, San Giorgio Jonico. Quello più a nord è situato al Brennero; quello più a sud a Pachino, capitale del pomodoro ciliegino (peraltro inventato dagli israeliani), ed è raggiungibile dopo 1.600 chilometri e 17 ore passate al volante. Hanno fatto l’Unità d’Italia all’insegna della «spesa intelligente», è questa l’origine dell’acronimo «spin» posposto alla parola «Euro». E ora si apprestano a conquistare altri Paesi.
Nel lancio di Eurospin, la dinastia dei Mion, che già conta 64 eredi, ha trovato tre compagni d’avventura con le rispettive famiglie: Ivan Odorizzi della cooperativa trentina Dao; Roberto Barbon della friulana Vega; Angelo Pozzi della lombarda Dugan. Soci paritari: 25 per cento di azioni ciascuno.
La quota veronese è controllata dal gruppo Migross, che appartiene interamente ai Mion, possiede oltre 50 punti vendita sparsi fra Veneto e Lombardia e fattura altri 500 milioni di euro l’anno. Luigi Mion ne è il consigliere delegato e ricopre anche la carica di presidente della Mion immobiliare. I muri di quasi tutti i superstore, supermarket e market di Eurospin, 1.500 metri quadrati di superficie minima, sono di proprietà.
Alessandro Mion, il padre di Walter (1947), Romano (1949), Giovanni (1951), Carla (1956), Giuseppe (1958), Luigi (1960) e Stefano (1964), era nato nel 1915 a Isola della Scala. Di figli ne aveva messi al mondo 9. «Purtroppo due sorelline morirono soffocate durante il parto», spiega Luigi. «Un grande dolore per la mamma, che passò 81 mesi della sua vita in stato interessante». Bruna Residori, originaria di Sommacampagna, classe 1926, ha lasciato per sempre la sua tribù nel 2014. Fu lei, mamma Bruna, a tenere insieme la famiglia dopo la prematura scomparsa del marito, avvenuta nel 1971, a soli 56 anni, per un tumore al cervello che se lo portò via nel giro di una settimana.
Un’altra immensa tragedia.
Affettiva e anche economica, considerato che il più anziano dei figli aveva 24 anni e il più piccolo appena 7. Dovendo lavorare in negozio, la mamma non avrebbe potuto accudire una prole tanto numerosa. Ebbe la fortuna di trovare un aiuto in zia Maria, sorella di mio padre, che era zitella ed è sempre vissuta con noi. Nei fine settimana veniva a dormire a casa nostra un’altra sorella di papà, Pina, anche lei nubile.
Perché il sabato e la domenica?
Perché nei restanti giorni passava la notte su una brandina nel retrobottega del suo negozietto di ortofrutta vicino all’Arena, al 47 di via Leoncino.
Diventare un’impresa di famiglia è stata una strada obbligata.
Già. Morto mio padre, nel 1974 dovetti abbandonare gli studi per dedicarmi con tutti i miei fratelli, mogli e fidanzate comprese, all’attività commerciale, che nel frattempo si era spostata di pochi metri, in via Barbarani 8. I primi soldi veri sono arrivati raccogliendo gli ordini al telefono e consegnando la spesa a domicilio, come fa oggi Esselunga, solo che noi utilizzavamo le biciclette, invece dei furgoni. E poi allargandoci con le forniture a terzi.
Forniture di che tipo?
Di ogni tipo, dal prosciutto affettato per la vicina pizzeria Vesuvio ai toast per il comando Nato, per la caserma Martini e per la IV Orme. Subito dopo rilevammo i due supermercati Imas di Raffaello Manganotti e Paolo Ienna, in via Magellano e via XXIV Maggio. Seguirono l’apertura di punti vendita in via Mameli e a Porto San Pancrazio. Nacque così l’insegna supermercati Mion, con una lungimirante «i», al plurale, invece della «o». Nel 1985 progettammo il primo Super Mion, 1.500 metri quadrati, in via Roveggia.
Le fondamenta dell’impero.
L’amministrazione civica ci fece la guerra in tutti i modi, rifiutandoci la licenza, perché sosteneva che quella era zona industriale. Invece dimostrammo in tre gradi di giudizio che il Comune aveva incassato gli oneri commerciali dai precedenti proprietari dell’immobile, la Vara autoricambi. Ciò che valeva per loro non doveva valere per noi? Vincemmo.
Fortunati. Bernardo Caprotti attese 40 anni prima che il Comune di Firenze gli concedesse di aprire l’Esselunga del Galluzzo.
Nel 1977 diventai responsabile del nostro magazzino di via Lorgna, che ben presto si rivelò insufficiente. Così, due anni dopo, nacque un grande centro logistico a Castel d’Azzano, costruito sul lotto attiguo a quello dove Dino Uber, cugino di mio padre, fece la stessa cosa per la sua catena di negozi d’elettrodomestici. Cambiammo la ragione sociale in Migros, cioè «Mion all’ingrosso». Il notaio obiettò: «Non potete, è una catena di supermercati che già esiste in Svizzera». Ci aggiungemmo una «s», Migross, e nessuno ebbe nulla da ridire. Diventammo concessionari della Crai. Rifornivamo gli altri negozianti con la formula cash and carry. Il che ci obbligò a costruire la nuova sede di Bussolengo.
Quando nacque Eurospin?
Nel 1993. Nel 1992 in stradone Santa Lucia aveva aperto il primo discount della Lidl. Su 9 casse, da noi ne funzionavano solo 2. Loro ne avevano 4 e c’era la fila. Vendevano lo shampoo a 500 lire il litro. Il nostro della Palmolive costava 8 volte di più. Io e mio fratello Walter ci guardammo in faccia e con gli amici Odorizzi, Barbon e Pozzi, colleghi affiliati alla Crai, decidemmo di andare in Germania per capire questo fenomeno. Fummo ospiti del gruppo Edeka, la più grande azienda tedesca di supermercati, i cui manager ci spiegarono che l’avanzata della crisi economica avrebbe favorito i discount. Una parola che a me non è mai piaciuta.
Perché? Non sono forse negozi che vendono prodotti a prezzi inferiori a quelli correnti?
Suona troppo simile a sconto. Il cliente discount non è povero, bensì intelligente. Sa scegliere il giusto rapporto fra qualità e prezzo. Di qui la decisione di creare un marchio che richiamasse appunto la spesa intelligente, unitamente all’euro, che sarebbe arrivato soltanto otto anni dopo.
Scelta previdente: ora vi state espandendo nel continente.
Nei giorni scorsi abbiamo aperto una società in Croazia. Presto sbarcheremo a Malta. Ci stanno cercando un po’ tutti – austriaci, ungheresi, serbi – perché il made in Italy va molto forte. Ma dobbiamo procedere con i piedi di piombo. Non siamo una multinazionale. Ci sveniamo per formare le risorse umane, non possiamo clonarle come se fossero la pecora Dolly. Nell’Eurospin in Slovenia ho dovuto mandare a lavorare per due anni il mio primogenito, Niccolò, 28 anni, che ha fatto di tutto, pizzaiolo, cassiere, commesso, fornaio, trattato come un extracomunitario. Oggi è tornato in Italia a occuparsi di vendite all’ingrosso e franchising. L’altro figlio, Zeno, 20 anni, studia Economia alla Cattolica.
Come mai avete deciso di cominciare la vostra espansione all’estero proprio dalla Slovenia?
All’Eurospin di Trieste c’era la coda dei frontalieri che venivano a fare la spesa dall’Est.
È vostro anche il 70 per cento degli immobili che occupate.
Lo sa che non lo so? Mi pare di sì. Stiamo trasformando i più vecchi, portandoli a un minimo di 2.000 metri quadrati.
Siete leader nella categoria dei supermercati low cost.
Ora dobbiamo vedercela con la multinazionale tedesca Aldi, big del settore. È arrivata in Italia con un Tir pieno di milioni e li sta spendendo.
Come reggete la concorrenza?
I nostri punti di forza sono la rotazione veloce del magazzino, che avviene nel giro di due settimane, e il sollecito pagamento dei fornitori, mediamente in 45 giorni.
Che differenza c’è fra Migross ed Eurospin?
Migross tratta Barilla, Ferrero, Coca-Cola e tutti gli altri grandi marchi. Eurospin no. Abbiamo scelto di puntare su industrie di primo livello che ci forniscono prodotti confezionati nel rispetto di capitolati redatti da noi.
Nel vostro sito ho contato 53 marchi a me totalmente ignoti, come merendine Tre Mulini, wurstel Töbias, olio Collina d’oro.
Ha contato tutti i marchi di nostra esclusiva proprietà. Dei quali l’unico giudice è il consumatore: se torna a comprarli, significa che sono buoni.
Chi garantisce la qualità di prodotti sconosciuti?
La nostra faccia.
Ma perché non ne avete neppure uno di marche famose?
Ha idea di quante proposte indecenti riceviamo ogni giorno dalle multinazionali per inserirli? Le respingiamo perché sono contro la nostra filosofia.
Che è quella del risparmio.
Guardi, forse con un paio di esempi mi spiego meglio. La nostra linea di acque minerali e bibite si chiama Blues. Chi crede che la produca? La San Benedetto. Solo che noi non dobbiamo pagare il costo degli spot con Cindy Crawford, né stipendiare una rete commerciale di vendita. Semplicemente aiutiamo San Benedetto, o l’acqua Sant’Anna, ad ammortizzare i costi delle loro linee produttive, che altrimenti si fermerebbero. Idem per il riso. Andiamo nei campi a scegliere il Carnaroli, ci mettiamo la nostra etichetta ma ce lo confeziona Scotti: noi non avremmo i macchinari per farlo.
Incide così tanto il costo della pubblicità sul prezzo finale?
Ci sono aziende che spendono il 20 per cento del fatturato. Una nota acqua minerale per una campagna arrivò al 50. Noi facciamo gli spot solo da due anni e investiamo non più dell’1-2 per cento, perché puntiamo sul passaparola.
Per gli alimentari chi è il vostro assaggiatore di fiducia?
Ne abbiamo molti: i dipendenti che frequentano le mense nelle sedi Eurospin di San Martino Buon Albergo e Migross di Bussolengo.
Su che cosa si basa il successo di Eurospin?
Qui mi frega. (Ci pensa). Sulla produttività.
Da quando nel 2008 è scoppiata la crisi economica i vostri affari vanno meglio o peggio?
Meglio.
Quindi tifate per la rovina dell’Italia?
Nooo! (Ride). Come quando tempesta, il tuo vigneto si salva dalla grandine e quello del tuo vicino no, tutto qua. La crisi l’abbiamo cavalcata. Ci ha insegnato a lavorare in modo diverso e a educare i fornitori ad abbassare i costi, trovando insieme a loro la strada per farlo.
E come ci siete riusciti?
Se un prodotto arriva direttamente dal forno allo scaffale, significa abbattere i costi del magazzino. Il contrario di ciò che faceva mio padre. Quando l’inflazione in Italia era al 15 per cento, comprava i succhi di frutta Gò della Star e li stivava persino sotto i nostri letti, perché stando lì il loro valore aumentava.
Eppure i vostri magazzini sono enormi.
Si tratta d’intendersi sul significato da dare a questo aggettivo. Quello della casa madre, a San Martino Buon Albergo, è di 36.000 metri quadrati. A Magione, in provincia di Perugia, arriva a 50.000.
Ma se un barattolo di passata di pomodoro è venduto a 35 centesimi, che paga avranno dato a quei poveretti che fanno la raccolta sotto il sole?
Ha idea di quanti sberloni ho preso da giovane perché al Mercato ortofrutticolo compravo frutta e verdura a un dato prezzo e il giorno dopo lo ritrovavo dimezzato? Il pomodoro è fra i prodotti più sensibili. Se costa 35 centesimi, significa che vale 35 centesimi. Ieri sera, passando davanti a un nostro punto vendita Migross, ho visto un cartello che reclamizzava l’olio d’oliva De Cecco a 2,45 euro la bottiglia. Siccome ho da poco messo a dimora 3.000 ulivi su un terreno di mia proprietà, ho fatto due conti e mi sono complimentato con i miei buyer.
Ma è un prezzo assurdo.
Esistono anche le aste. Noi le facciamo. Il produttore non vuole darci il suo olio a quel prezzo? Liberissimo di farlo.
Caprotti mi confessò il segreto del suo successo. Diceva ai commessi dell’Esselunga: «Mai mettere sugli scaffali qualcosa che non comprereste per portarlo a casa vostra».
La penso allo stesso modo.
Ma sua moglie dove fa la spesa?
Solo nei nostri supermercati.
Mi pare difficile che preferisca Eurospin a Esselunga.
E beh, mi dispiace per Giuseppe Caprotti, figlio di Bernardo, che è un caro amico, ma preferisce Eurospin.
Non ha un po’ di nostalgia per le botteghe di quartiere?
È faticoso dare una risposta. Saprei ancora appoggiarmi la matita dietro l’orecchio, ma non si fanno i grandi numeri senza la standardizzazione.
E neppure rispettando il riposo festivo.
Già prima che il coronavirus le impedisse, ero contrarissimo alle aperture domenicali. Per motivi etico-sociali. Hanno assassinato le famiglie e aumentato i costi, perché il lavoro festivo va pagato di più. Dov’è il vantaggio? Fra l’altro sono la principale ragione per cui fatichiamo a trovare giovani da assumere. Li capisco. Mio padre era costretto dal bisogno a tenere aperta la bottega di domenica. Negli anni Settanta vi rinunciò e, come può vedere, nessun Mion è morto di fame.
(L’Arena)