il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2020
L’Onu mette al bando i mercati-macello
“Se non ti preoccupi della natura, sarà lei a occuparsi di te”. Con queste parole la responsabile della biodiversità delle Nazioni Unite, Elizabeth Maruma Mrema, si è espressa in favore del bando mondiale dei mercati umidi. E cioè quei mercati, presenti soprattutto nei paesi asiatici, dove vengono venduti vivi e poi macellati animali in condizioni igieniche precarie. Proprio come a Wuhan, dove si pensa sia partito il coronavirus.
“Ora continueremo a fare pressione per passare dalle dichiarazioni ai fatti. È comunque un buon segnale”. Matteo Cupi, fondatore di Animal Equality Italia, non se l’aspettava. Questa apertura arriva a soli quattro giorni dal lancio della petizione rivolta proprio all’Onu per chiedere la chiusura dei mercati umidi, e che ha già superato le 200.000 firme. “È provato che i ‘wet market’ siano il terreno fertile in cui avviene lo spillover tra virus da animali selvatici a esseri umani, e se vogliamo evitare le prossime pandemie globali e inutili crudeltà estreme su animali selvatici e da allevamento è ora di agire subito”.
La Cina ha già disposto un divieto temporaneo alla vendita di specie selvagge. Fra queste c’è anche il pangolino, il piccolo mammifero corazzato che ora è salito sul banco degli imputati del coronavirus. Ma c’è un altro imputato nel processo sulle cause che hanno portato al coronavirus: gli allevamenti intensivi e l’industrializzazione della produzione alimentare. L’accusa viene dallo studio di due antropologi, Lyle Fearnley e Christos Lynteris, che hanno documentato un passaggio cruciale per l’evoluzione dell’economia cinese, l’inizio degli anni Novanta. In quel periodo infatti in Cina si fa strada l’industrializzazione del sistema alimentare. I grandi allevatori tagliano fuori i più piccoli. E alcuni fra questi, per cercare di sopravvivere, si danno all’allevamento delle specie selvagge, che in passato invece venivano mangiate solo come forma di sussistenza.
Ma più gli allevamenti intensivi conquistano nuovi terreni, più i piccoli allevatori vengono spinti fuori, ai limiti delle zone incolte. E cioè in prossimità delle foreste, dove vivono, appunto, pipistrelli e virus. E l’ipotesi è che sia stato l’aumento della densità e della frequenza di contatti fra animali allevati e specie selvagge che abbia favorito il salto di specie, che avrebbe poi portato al coronavirus. Se sia nato così il covid-19 è ancora troppo presto per dirlo. Ora però la discussione è tutta incentrata sulla chiusura dei mercati umidi. È la stessa responsabile della biodiversità dell’Onu Mrema però, parlando con il quotidiano britannico Guardian, a mettere in guardia: “Alcune comunità a basso reddito, e parliamo di milioni di persone, basano il proprio sostentamento sulle specie selvagge. Quindi a meno che non diamo un’alternativa a queste comunità, il rischio è di aprire le porte del mercato nero a questi animali, e così anche all’estinzione di alcune specie”.
La partita sui mercati umidi si giocherà in questi mesi, con la Cina impegnata a ripulire la propria immagine da untore del Pianeta, ma allo stesso tempo con tradizioni ed economia di famiglie a basso reddito da preservare. Nel frattempo, però, per “preoccuparsi della natura affinché non sia lei a occuparsi di noi” si sta aprendo un’altra discussione. E ci riguarda molto più da vicino, perché legata agli allevamenti intensivi, dai quali proviene oltre l’80% dei nostri prodotti di origine animale. Come ha scritto la Fao in un suo rapporto di ben sette anni fa, “il 70 per cento delle nuove malattie che hanno colpito l’uomo negli ultimi anni ha origini animali e, in parte, è direttamente collegato alla domanda di più cibo di origine animale”. Per prendere di petto seriamente il pericolo di nuove pandemie, quindi, non potremo che passare da un’attenta analisi su come produciamo il nostro cibo, e dal nostro rapporto con la natura. Perché non sia lei a occuparsi di noi.