Londra si è ristretta in un appartamento in affitto, tre camere da letto vicino a Regent’s Park. Il piccolo giardino, il supermercato a un passo da casa. Un tempo Londra per Francesco Molinari, il più britannico dei nostri campioni insieme a Frankie Dettori, era la base da cui decollare verso i tornei di golf di tutto il mondo, ma anche la città delle mattinate alla Tate Modern e delle serate al Theatre District.
Londra era la casa in cui portare i figli a scuola e lo specchio in cui riflettere la gloria di chi nel 2018 ha trascinato il team europeo a vincere la Ryder Cup a Parigi, è stato nominato World Sport Star of the Year dalla Bbc e ha vinto The Open, l’unico Slam golfistico sul territorio britannico (cancellato proprio ieri per il coronavirus). Ma è stata l’Italia a mandare a Francesco Molinari il segnale più importante: la sua vita stava per cambiare, niente era più come prima.
«Ho la fortuna, diciamo così, di aver visto cosa succedeva nel mio Paese, in anticipo di settimane rispetto a “noi” londinesi. Ero in Florida al Players Championship quando hanno cominciato a cancellare i nostri tornei. Ho immaginato che anche qui avremmo seguito un percorso simile. E così è stato».
Quando ha avuto paura davvero?
«Quando la situazione è precipitata in Italia, io ero in America e la mia famiglia a Londra. Ho temuto di rimanere bloccato negli Usa per chissà quanto tempo, quando Trump ha dichiarato in quella famosa conferenza stampa che avrebbe bloccato i voli con l’Europa. Il 12 marzo, ho giocato il mio ultimo colpo su un campo. Il giorno dopo hanno annullato il Players Championship e ho preso il primo volo».
Si è spaventato quando Boris Johnson ha parlato di “immunità di gregge”?
«Io e mia moglie eravamo preoccupati per i nostri genitori in Italia, ma al tempo stesso rassicurati dal fatto che non fossero qui in Inghilterra».
Come ha sfruttato il vantaggio del modello italiano, in una Londra che riempiva ancora pub e ristoranti?
«Ho avuto la possibilità di organizzarmi prima che scattasse il lockdown anche qui. Ho ordinato una rete per fare pratica in giardino, ho comprato pesi, cyclette, ho attrezzato una mini palestra nello studio. Certo, non è l’ideale».
Il golf degli spazi immensi,
compresso in un appartamento.
«È durissima. Ma per me è anche una novità stare a casa a tempo indeterminato. Non mi succede da vent’anni».
In un’altra vita, diciamo.
«Da quando ho moglie e figli non era mai capitato. Anche nei momenti di pausa tra una stagione e l’altra era tutto programmato».
Tanti riscoprono la famiglia.
«Cambiare stile di vita mi ha dato la possibilità di stare più tempo coi miei bambini. Hanno chiuso le scuole, per cui Tommaso ed Emma hanno bisogno dell’aiuto mio e di mia moglie Valentina per fare i compiti online. Uno di nove anni, l’altra di quattro anni e mezzo, li vediamo interagire come mai in passato. In genere mi chiedevano “quanto stai a casa?”, “quando vai via?” e avevo sempre una risposta pronta. Stavolta dico “No, resto a casa, per un bel po’”.
Tutto si è fermato, e nella mia testa si è creato uno spazio immenso per la famiglia».
Alla fine si è arresa al lockdown anche Londra.
«Mi sembrava inevitabile, non sono uno scienziato ma ho letto tanto di quello che si diceva in Italia in quei giorni. Chissà se credevano veramente all’immunità di gregge».
Intanto la città in cui ha scelto di vivere è irriconoscibile.
«E chi la vede più? Per capire com’è in questo momento guardo le foto sui siti. Fa effetto, è qualcosa che nessuno poteva immaginare».
Come sono le sue giornate?
«Esco una volta a settimana per fare un po’ di spesa, in un supermercato qui accanto. Passo tutto il resto del tempo in casa».
Di solito fa il cuoco per i suoi figli.
«Spaghetti al pomodoro, pollo alla milanese, e ora abbiamo introdotto nel menu la carbonara. Ma non col bacon, con la pancetta italiana che si trova ancora nel reparto gastronomia».
Le manca più il golf o una vita normale?
«Quel che mi manca veramente è la semplicità di uscire, prendersi un caffè, portare i bambini a scuola. Il golf in questo momento viene in secondo piano. Dovranno succedere molte cose prima che si possa tornare in campo, con la sicurezza che tutto sia sotto controllo».
Hanno rinviato i Giochi al 2021, giusto farlo anche per la Ryder Cup in programma a settembre?
«Era difficile immaginare diecimila atleti di duecento Paesi convivere a luglio. La Ryder al confronto è giocata da pochi atleti, ma come fare con l’enorme pubblico? Sarebbe giusto rimandarla, anche perché il circuito per qualificarsi nel team europeo o americano è stato martoriato dalla cancellazione di tanti eventi. So che viviamo in un sistema in cui prevale il lato economico, vediamo cosa decideranno».
Il rinvio farebbe slittare di un anno anche la Ryder Cup 2022 di Roma?
«Immagino di sì, come è successo nel 2001 dopo l’11 settembre».
Lo stop dei tornei è arrivato nel momento in cui lei sembrava potersi rilanciare dopo un periodo di crisi.
«Sì e no, mi sentivo ancora a metà del guado. Mentirei se dicessi che mi sentivo di nuovo pronto. Non si può mai sapere, magari in due-tre settimane sarei tornato al top. Di sicuro la pausa mi ha fatto scoprire qualcosa di importante».
Non sta parlando della famiglia, sembra.
«No, stavo giocando con un problema di usura fisica molto più grave di quanto pensassi. Se avessi continuato a insistere sulla zona lombo-sacrale che mi tormentava mi sarei fatto davvero male. Ora sono obbligato a riposarmi, sfrutterò questo periodo per essere pronto quando ripartiremo».
A casa sua tiene sul tavolo la replica della Claret Jug, il trofeo che spetta al vincitore del British Open.
Che effetto le fa rivederla?
«Ricordi bellissimi, ma anche tanta voglia di riprovarci. E un po’ di delusione per come sono andate le cose dopo. Ci sono gli alti e i bassi, e quando arrivano questi ultimi non sei mai pronto. L’importante è imparare da momenti peggiori».
Lei diceva “il mio processo di miglioramento è continuo, non sono schiavo dei risultati”. La pensa così anche oggi?
«Ci ho provato, però questa visione non mi deve rendere cieco. Se i risultati mi danno torto, devo avere l’umiltà di analizzare dove e come ho sbagliato, correggendo la rotta».
Sta rivedendo le sue strategie?
«Per tutti noi sportivi questa è un’immensa opportunità, sei-otto settimane, forse di più, per riflettere, pianificare il futuro. Con la mia squadra, sparsa per il mondo, facciamo continue analisi con videochiamate individuali o di gruppo».
Pensa che tornerà il campione che chiamavano “Laser Frankie”?
«Spero di tornare anche più forte di prima. So che nel 2018 e 2019 sono arrivato in cima al mondo con le mie forze, come adesso so che posso fare ancora meglio di allora. Per questo sto lavorando, anche qui, isolato nella mia casa di Londra».