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 2020  aprile 07 Martedì calendario

Flavio Giurato ha fatto un nuovo album

In questo momento in cui tutto si è fermato, Flavio Giurato - fuori del sistema per definizione - pubblica un nuovo lavoro: Nuovo Marco Polo (titolo inventato al volo parlando con Paolo Giaccio, il suo mentore) evoca il lavoro del 1984, ultimo album di un trittico iniziale che lo aveva consegnato a un pubblico limitato, ma fedele, sicuramente messo sull’avviso dai passaggi a Mr Fantasy dell’Lp precedente, Il Tuffatore, esempio luminoso e istantaneo di «album di culto». 
Recluso in casa come tutti noi «ma questa è la mia condizione abituale, l’unico cambiamento è un diradamento dei viaggi al cassonetto…» nella sua cameretta nella Città Giardino a Montesacro «dove dal 1978 vivo, leggendo, suonando, guardando in questo periodo molte serie tv» (Roma, Britannia, Atypical le preferite), Flavio con la sua parlata torrenziale ti sottolinea l’importanza del «barrio», citazione chicana: «Sono cresciuto col cinema neorealista, per me raccogliere espressioni, frasi, battute in mezzo alla gente e metterle in bocca a Marco Polo è un gioco naturale». 
Essere fan di Giurato, allora come adesso, implica essere in cerca di qualcosa molto diverso non solo dalla musica che gira intorno, ma anche da quella cantautorale classica, che una vena pop ce l’ha sempre. Forse, bisogna essere un po’ come lui: in direzione ostinata e contraria sempre, senza però quella dolcezza fascinosa della parola e della melodia con cui De Andrè rivestiva le sue storie. Per dono (o vezzo) naturale tende a invertire i paradigmi abituali: prendi Il Tuffatore, dove sottolinea non l’entrata ma l’uscita dall’acqua, o meglio «dall’acqua all’aria». È un narratore, i suoi testi si sviluppano come una strada con molte curve o come un viaggio con molte tappe, sono estesi («che salvezza il digitale, posso fare canzoni lunghe quanto voglio!»), richiedono quell’attenzione che devolvi a un romanzo, o a un film dalla trama intricata. Non esattamente quello che va di moda adesso, insomma. Ma tanto, con Flavio è inutile parlare di moda: sette dischi di studio in 42 anni, regista Rai nelle lunghe pause, pochi concerti in posti particolari, spesso pubblicizzati per passaparola: «Come un fiume carsico che scompare e ricompare, l’hai scritto tu una volta, e da allora è diventata un’etichetta, me lo ricordano sempre» dice ridendo. 
Eppure, la sua intensità e fisicità, sia sul palco che nella vita privata, è una cifra mai perduta, frutto del suo amore per lo sport: «Mio nonno era il librettista di Puccini nell’opera Gianni Schicchi, bambino mi portò in camerino da Renata Tebaldi, ricordo ancora il suo decollète. Un giorno mi regalò l’Enciclopedia dei Ragazzi, dove trovai le foto del baseball. Mi innamorai di quel gioco, sono arrivato a giocare fino in Serie A, e per me l’allenamento è rimasto costante nella mia vita. Pratico una serie di esercizi «da camera» che riproducono i movimenti animali, ogni giorno e prima dei concerti. Per questo non ho nessuna paura dal vivo, dopo aver preso a 15 anni gli sputi dei tifosi del Nettuno, cosa vuoi che mi spaventi?».
Quella con Marco Polo sembra una storia d’amore, di quelle che fanno giri immensi e poi ritornano. «Per me Marco Polo è il contatto fra Occidente e Oriente, è lo sforzo di comprendere un’altra cultura. Poi contiene il tema del viaggio, del paesaggio che cambia e ti fa cambiare. Nell’83, ogni sera dopo aver visto su Rai1 lo sceneggiato di Giuliano Montaldo mi sedevo al piano e componevo quello che avevo visto nella puntata. Marco Polo è il mio suicidio artistico. Sono stato scaricato dalle major - a cui rimango riconoscente per quei tre dischi, con ospiti come Ry Cooder o Mel Collins - ma mi ha salvato la vita: sono sfuggito alle logiche industriali ».
Questa volta si tratta di due soli brani: la title track di 64’ è un racconto, cominciato con l’intenzione di un libro, o forse un radio-dramma, e terminato 36 anni dopo grazie all’incontro con un giovane poeta, Guido Celli. È mutato in una sorta di audiolibro che racconta della vita e spedizione di Marco, dalla famiglia di origine veneziana fino alla Corte del Gran Kahn del Catai. Un racconto orale, come probabilmente era frequente nel 1200, solo voce (molto espressiva) e interventi sonori. Perfetto per un podcast. Il secondo, Caravan, 12 minuti, è la messa in musica del racconto di Marco e Monica, in una forma di filastrocca ironica e orecchiabile, un po’ nella vena popolaresca di Vinicio Capossela, batteria ed elettrica a scandire il flusso:«che culo, sono il primo della fila», mentre parte il racconto di viaggi e personaggi di un mondo esotico e lontano.
Bentornato a Flavio Giurato, allora. Chi lo ama, o chi è curioso, si affretti a cercare un mestolo e raccogliere un po’ del fiume che ricompare, prima che scompaia di nuovo. Fino alla prossima volta.