Affari&Finanza, 6 aprile 2020
Intervista a Lorenzo Bini Smaghi
Che Italia ci sarà quando, speriamo il più presto possibile, passerà la tempesta del coronavirus?
«Dipende molto da quanto durerà la crisi, in particolare la serrata - risponde Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Société Générale e già membro del Comitato esecutivo della Bce - Più è lunga, più aumenta la probabilità che aziende, in particolare quelle di piccole dimensioni, commerci, professionisti, falliscano e abbiano bisogno di aiuto. Per questo motivo bisogna chiedersi se, a un certo punto, quando si sarà stabilizzata la curva di chi ha bisogno di assistenza ospedaliera intensa, valga la pena di continuare a tenere tutto chiuso e spendere per compensare il reddito di chi l’ha perso, o riaprire gradualmente e investire fondi pubblici per rafforzare i presidi di sicurezza sanitaria di chi lavora e riprende a circolare. Non vedo ancora una riflessione su questo aspetto, basata su analisi economiche e non solo sanitarie».
Il Pil probabilmente calerà di molto, c’è già chi vede il -10 per cento. Quanto ci vorrà per recuperarlo? Tra l’idea delle "V" e quella della "L", quale ritiene più probabile?
«Se si usa come base di confronto la crisi precedente, l’Italia è stato l’unico Paese il cui prodotto lordo non è tornato sui livelli pre-2008. Quella crisi era caratterizzata da una combinazione di problemi, relativi all’economia reale, al sistema bancario e alla finanza pubblica, che sono rimasti a lungo irrisolti. Questa crisi del coronavirus è in parte diversa, ma il basso potenziale di crescita dell’economia italiana rimane il principale punto debole. L’altra debolezza deriva dalla difficoltà di chi governa di riconoscere gli errori del passato e di imparare la lezione. Negli anni recenti, in particolare dopo il governo Monti, l’unica linea di politica economica è stata quella di chiedere maggiore "flessibilità" all’Europa per fare più spesa corrente, senza rendersi conto che ciò non aiutava la crescita, mentre il debito invece continuava ad aumentare. Sono state fatte ben poche riforme per rendere il Paese più competitivo. Questa è la vera fragilità, soprattutto di natura culturale».
La questione cruciale per il nostro Paese resta quella dei conti pubblici. Secondo dati dell’Osservatorio della Cattolica da qui alla fine dell’anno non ci dovrebbero essere grandi problemi: considerato il nuovo Qe rimarrebbero da recuperare sul mercato un centinaio di miliardi. Per il momento siamo in sicurezza?
«Il sistema europeo di banche centrali ha già acquistato oltre il 20% del debito pubblico italiano, e ne acquisterà un altro 10% quest’anno. Il problema principale è il livello più elevato dei tassi d’interesse italiani, rispetto non tanto alla Germania ma anche a Paesi come la Spagna e il Portogallo. Questo differenziale è dovuto in larga parte alla bassa crescita potenziale e alla instabilità politica. Osservando la situazione dal punto di vista di chi si pone la domanda se continuare o meno ad investire in titoli di Stato italiani, non può non colpire il messaggio che viene da una certa classe politica italiana secondo cui l’Europa è all’origine di tutti i mali e che sarebbe meglio uscire dall’euro. Non si tratta certo di un messaggio rassicurante. Il rischio maggiore è che questi risparmiatori si scoraggino o prendano paura».
Naturalmente queste risorse non basteranno per rilanciare l’economia italiana che ha margini stretti e un debito alto. A quanto potrà arrivare il debito dopo la tempesta?
«Per effetto degli acquisti già fatti e di quelli programmati dalla Bce, il peso del debito italiano disponibile sul mercato è inferiore al 100% del Pil. Ciò significa che c’è un certo spazio per un ulteriore aumento. Quello che importa per gli investitori non è tanto l’aumento per effetto dello shock del coronavirus, quanto capire se c’è un piano di medio periodo per mantenere il debito sotto controllo e ridurlo gradualmente, quando l’economia riprenderà a crescere. L’esempio di questi ultimi anni, quando l’impegno a ridurre il debito (in rapporto al Pil) è stato sistematicamente disatteso dai successivi governi, non è di buon auspicio. Il problema dell’economia italiana, ripeto, è soprattutto la crescita insufficiente. E l’idea - condivisa da gran parte dei partiti - che la crescita si fa con più debito, invece che con le riforme di quei meccanismi strutturali che impediscono alle imprese di investire e creare posti di lavoro».
Pensa che mercati e spread possano risvegliarsi?
«I mercati sono sempre svegli e guardano tutti i giorni ai fattori di rischio che possono mettere a repentaglio i loro investimenti. Il maggior rischio per lo spread attuale è di natura politica, caratterizzata da instabilità e dalle difficoltà nel mettere in atto una strategia che consenta di riportare la crescita su un sentiero sostenibile. Non si tratta solo degli interventi di breve periodo quanto delle azioni concrete per eliminare lacci e lacciuoli del nostro sistema. Su questo secondo aspetto non si è visto molto finora».
Il tema è naturalmente l’Europa, tra le varie proposte in campo quale ritiene la più abbordabile. Eurobond, Mes con condizionalità, Bei, o altro?
«L’Europa ha già messo in atto alcuni strumenti potenti, come gli acquisti della Bce, la sospensione delle regole del Patto di ztabilità, la flessibilità degli aiuti di Stato. Possono essere rafforzati o usati meglio alcuni strumenti esistenti, come la Bei, il Fei, il Mes. Poi c’è la questione dei nuovi strumenti che possono essere discussi ed eventualmente adottati. Ciò richiede più tempo, devono rispettare alcuni criteri di legittimità e responsabilità democratica. Per quel che riguarda titoli di debito comune, possono essere pensati per iniziative specifiche, con obbiettivi comuni e linee guida per assicurare un’azione congiunta. Non è pensabile un indebitamento a livello di Unione e poi ciascuno è libero di usare i fondi come vuole. Sarebbe il paese del Bengodi».
Cosa rischiamo se la crisi si prolunga? È ipotizzabile un prestito irredimibile, una patrimoniale o un prelievo forzoso?
«Una patrimoniale, o un qualsiasi altro strumento forzoso, sono il frutto di un fallimento, il risultato di scelte economiche sbagliate da parte di una certa classe politica. Non sono assolutamente inevitabili. Dipende dalla classe politica che guida il Paese e dalle scelte che essa fa».
Si parla a destra di flat tax, pensa che possa essere una soluzione in una fase come questa?
«Da questa crisi non si uscirà tutti uguali. Alcuni staranno peggio di altri. La flat tax non è certo equa, in una fase nella quale ci sarà bisogno di più, non di meno equità».