Stasera doveva esserci la finale, ultimo atto della March Madness , la follia di marzo, come chiamano la vetrina del basket universitario che tiene l’America incollata alla tv. Allora sì che Mannion l’avrebbero conosciuto tutti, e dopo sarebbe stato più facile provare il salto in Nba. Ma adesso? «Adesso mi alleno da solo, ogni giorno, pensando alla famiglia, all’Italia e a questa tragedia che ci riguarda tutti», racconta al telefono.
Niccolò Mannion è nato a Siena nel 2001, ora vive nel caldo dell’Arizona, terra di Navajo e Apache. Qui il coronavirus ha fatto oltre 2 mila contagiati e più di 50 morti. Il padre, Pace, ex giocatore Nba con lunga militanza in Italia, è bloccato nello Utah. La madre, Gaia Bianchi, ex pallavolista, è confinata vicino a Roma. Sull’account Twitter di Mannion c’è un breve video: si vede lui, maglia numero 1, andare in penetrazione con otto palleggi, di cui cinque sotto le gambe, e schiacciare nel tripudio generale. È il ragazzo che accelera, sorpassa, decolla, sceglie. Ma è anche capace di fermarsi. Postare lo screenshot della tv con il titolo della Fox sulla tragedia in Italia. E il commento: «Per favore, leggete».
Dalle finali possibili all’epidemia.
Niente basket, addio sogno.
«È stato tutto così triste e improvviso».
Sarebbero state le sue prime finali di college e da rivelazione.
«Avevo giocato il mio basket migliore, sognavo di farlo davanti a un grande pubblico, vivendo con i miei compagni tutto il giorno».
Invece il virus si è preso la scena.
«Il 12 marzo. Stavamo preparando la partita contro Las Vegas. Lo staff ci ha radunati e comunicato che la stagione era cancellata. È stata dura, soprattutto per i miei compagni dell’ultimo anno. A loro non capiterà più di giocare le finali».
Quando ha capito la gravità della situazione?
«Rispetto agli altri, sapevo molto di più perché seguivo le notizie sull’Italia, mia madre è bloccata da tre settimane in casa a Ostia, assieme ai miei nonni, i cugini, gli zii. Ma ho capito davvero quando si è fermata la Nba. E poi quei numeri dall’Italia».
Com’è adesso la sua giornata?
«Mi alleno in casa e in palestra con il mio preparatore. Sveglia alle 8.15, colazione e tre ore di allenamento.
Pranzo, poi chiamo i miei genitori».
Lei ha invitato i suoi 400 mila follower a restare a casa.
«Tutte le mattine, prima di cominciare la seduta, il mio coach mi aggiorna sui dati dell’epidemia. È spaventoso. Nei giorni del picco in Italia è stata dura vedere i ragazzi fare festa in spiaggia in California e Florida. Non si rendevano conto. Per quello, ho scritto: restate a casa».
Per il basket è un anno surreale, già segnato dalla morte di Kobe
Bryant...
«Pensare che lo conobbi grazie al mio italiano. Semifinali di Conference, 2008, Utah-Los Angeles. Avevo 7 anni, mio padre lavorava per i Jazz. I Lakers avevano vinto gara 6 e chiuso la serie. Volevo conoscere Kobe. Lo aspettai per un’ora nel tunnel che portava agli spogliatoi. Papà, che lo aveva conosciuto in Italia, mi disse: parlagli in italiano, catturerai la sua attenzione. Lo feci, lui si fermò e restò con me dieci minuti. Dieci minuti...».
Cosa le disse?
«A dire il vero non ricordo bene, ero frastornato, ma fu l’emozione più forte della mia vita. La sua morte è stata una tragedia. Kobe per me era il miglior giocatore al mondo».
Lei, invece, sognava di essere il migliore delle finali Ncaa, anche per dimostrare che avrebbe potuto far parte del Team Usa giovanile.
«Beh, sì...».
Come andò invece?
«Eravamo a Colorado Springs, nel 2017. C’erano le selezioni della nazionale Usa Under 16 per i campionati panamericani. Venivo da una grande stagione, in quei due giorni avevo dato tutto, attaccavo, difendevo, tiravo, facevo assist. Ci radunarono per comunicare i quattro esclusi. Eravamo tutti ammassati sui divani. Il coach fece il primo nome: non ero io. Il secondo: nemmeno. Il terzo: neanche».
Pensò, è fatta.
«Sì. Invece al quarto sento: ‘Nico Mannion’. Andai in camera, misi la roba in borsa e telefonai a casa perché mi venissero a prendere. Il giorno dopo, la federazione italiana mi offrì un posto per gli Europei Under 16. Non fu una decisione facile, non passi da una nazionale all’altra in due minuti. Ma capii che era una grande opportunità: ero nato in Italia, metà della mia famiglia è italiana. Dissi di sì e sono orgoglioso di averlo fatto. L’azzurro fa parte di me. Quell’esclusione, alla fine, mi ha dato l’energia per emergere».
Potrebbe dichiararsi eleggibile per il prossimo draft Nba?
«Sì, è una possibilità, ma devo pensarci bene».
Quando deciderà?
«Entro pochi giorni».
Riesce a immaginare il suo futuro?
«Sinceramente no».