Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 05 Domenica calendario

Biografia di Beatrice Rana

In un giovane musicista colpiscono la concentrazione, la capacità di stare dentro allo strumento, solo e svincolato dal mondo, come se null’altro intorno esistesse. Colpisce la perfezione non dimostrativa. La bravura tecnica, che supera con naturalezza la materia inerte di corde e tasti, per inventare creature, oggetti, capolavori tirati fuori dal passato e riportati al presente, nati ora. Tutto questo si prova davanti al pianoforte di Beatrice Rana, ventisette anni, baciata dagli dei per la mano felicissima, e di suo musicista profonda, ma anche semplice, diretta nel fraseggio, dal suono incantato.
Alla Scala l’ultima volta l’avevamo ascoltata in quella che ormai sembra preistoria, ossia nell’ultimo concerto dal vivo della stagione della Filarmonica, il 17 febbraio scorso. Nell’anno degli omaggi a Beethoven, a Beatrice era stato consegnato un appuntamento importante, di quelli che non passano inosservati: l’esecuzione del Quarto, il femminile, tra i cinque Concerti. Il più morbido, col sol maggiore dolce e luminoso, cordiale di affetti nel dialogo con l’orchestra (qui sul podio Fabio Luisi) e con la sorpresa icastica dell’attacco iniziale, dove il solista entra con una frase che tutto promette, allusiva e catturante, ma poi invece tace. Esce di scena, sembra prendersi una scherzosa pausa, un riposino, mentre intanto gli strumenti intorno lavorano. 
Questa insolita scrittura, a trappola – perché mani e testa si sono appena scaldate e subito sono costrette a raffreddarsi – crea spesso problemi nel Quarto. Non a tutti, però. Non alla Argerich, che ne è paladina. Non alla Rana, che debuttando a Milano ha confermato subito quella tenuta musicale sua tipica: vincente perché solare e facile, come è delle creature che abitano nella musica, e non potrebbero in nessun altro luogo. Tranquilla, ancora di grazia fanciullesca, mentre la prima frase usciva cantando, senza indugi, zero retorica, ma cesellata con un pizzico di velocità in più nella manciata delle notine più fitte. Contrassegnata così subito dalla sua firma, perché uno degli assi nella manica della pianista è il gusto nei decori, nei preziosismi, negli abbellimenti sempre smaglianti.
Altro tratto indimenticabile e precipuo di quella interpretazione fu la scelta di un volume raccolto, di una sonorità sempre dettagliata ma tenuta nel centro, mai estroversa, pestata o esibita. E questo a farci riflettere su un Beethoven più classicista di quanto di solito lo si proponga, giustamente più figlio di Haydn che di un improbabile Prokofiev. Beatrice Rana tra l’altro ha suonato e inciso quest’ultimo (n.2, con Pappano e Santa Cecilia) e sa che le parentele vanno storicizzate. Esattamente come sa che la grande tradizione dei pianisti non ha mai avuto bisogno di teatralità inutili, perché è già da solo il gesto delle mani sulla tastiera a fare teatro. Un teatro tutto lì, nel bianco e nero, a specchio con la scrittura sui pentagrammi.
Che mani felici ha Beatrice, nata a Copertino, nel Salento, 27 anni fa. Se ne sono accorti subito tutti: i genitori musicisti, i maestri (Benedetto Lupo, con cui si è diplomata al Conservatorio di Monopoli) e i giurati del Concorso Internazionale di Montréal, in Canada, che quando lei era diciottenne le hanno dato il primo premio, facendola entrare come la più giovane, nel parterre della competizione, e la prima italiana. Online si possono ancora vedere le finali e il concerto di premiazione (da guardare, meritano, in questo tempo di musica online massiva), tra l’altro con riprese di telecamere perfette. Per una curiosa coincidenza, il bis finale del concerto alla Scala proponeva la Giga dalla Partita n.2, in si bemolle maggiore, di Johann Sebastian Bach. La stessa presentata, ovviamente per intero, a Montréal: meravigliosa. Incantatoria. Come le Goldberg, incise in una fortunato disco per Warner (l’ultimo, del novembre scorso, di nuovo un goal, con Ravel e Stravinskij). 
Nella Giga, dove Bach fa l’italiano, citando il gioco delle mani incrociate, che piaceva tanto a Scarlatti, ieri come adesso l’esattezza del carattere usciva perfetta. Immacolata nella sgranatura dei suoni, e insieme con un gusto del piccolo crescendo, nei temi spiritosi: con il piacere della sorpresa, con il da capo dei ritornelli da chiedere all’infinito, tanto era leggero e malioso.
Che sarà di Beatrice Rana nei prossimi mesi? La sua agenda piena di “X”, come per tutti i grandi artisti in questi mesi, guarda avanti fiduciosa: a fine maggio debutto con la Chicago Symphony Orchestra, direttore Bernard Labadie, in programma due Concerti di Bach, BWV 1052 e 1056; a ottobre, al Lincoln Center, Primo di Ciaikovskij con la New York Philharmonic; in mezzo, anzi, nel cuore, visto il valore emotivo e simbolico del Festival, a Lecce, nella prima settimana di luglio, quarta edizione del Festival di musica da camera “ClassicheFORME”, per restituire alla terra natia, il Salento, ascolti preziosi. 
Il condizionale scaramantico diventa una certezza sul prossimo 20 aprile, quando Rai5 ritrasmetterà il suo Primo di Brahms. Da gustare.