Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2020
Petrolio a picco, fondi sovrani pronti a svendere
Sono stati creati proprio per resistere ai rainy days, i giorni di pioggia. Ma i fondi sovrani dei Paesi dipendenti dal petrolio oggi devono fare da ombrello per un diluvio di proporzioni mai viste, che potrebbe spingerli a vendere asset per oltre 250 miliardi di dollari, stando alle prime stime degli analisti: un ulteriore rischio non solo per i mercati finanziari, ma per l’economia reale visto che i petrodollari hanno comprato nel tempo partecipazioni rilevanti in molte società, immobili di lusso, titoli di Stato, valute pregiate, lingotti d’oro e quant’altro.
Con le quotazioni del greggio tuttora molto basse (benché risollevate dalle trattative per grandi tagli di produzione), l’emergenza coronavirus che ormai non risparmia nessuno e l’economia globale che punta dritto verso la recessione, i Paesi troppo dipendenti dagli idrocarburi stanno fronteggiando la crisi più dura nella loro storia. I fondi sovrani di Medio Oriente e Nord Africa, secondo JP Morgan hanno già scaricato azioni per 100-150 miliardi di dollari e si apprestano a vendene per altri 50-75 mliardi nei prossimi mesi. Il fondo norvegese, il più grande del mondo, potrebbe cedere titoli per oltre 25 miliardi. E poi c’è l’incognita Russia.
Mosca ha detto che per resistere al crollo del petrolio è pronta a bruciare l’intero arsenale delle sue riserve: 570 miliardi di dollari, di cui 150 miliardi custoditi dal fondo sovrano. La sua banca centrale dopo oltre un decennio ha smesso di accumulare oro e anche i lingotti potrebbero finire sul mercato.
Ora il Cremlino, a un mese dalla rottura con l’Opec, è tornato ad appoggiare l’ipotesi di un maxitaglio della produzione petrolifera, ma secondo fonti di agenzia il governo russo starebbe comunque preparando la prossima finanziaria sulla base di un prezzo del greggio di 20 dollari al barile.
In questo periodo – che molti paragonano alla Grande depressione del 1929 o agli anni della Seconda guerra mondiale – molti membri dell’Opec sono tra i Paesi più fragili del mondo, perché afflitti non solo dalle avversità economiche e sanitarie, ma costretti a fare i conti anche con enormi sacche di povertà, che esistevano già prima della pandemia, e spesso anche con sanzioni, guerre, terrorismo. Nel gruppo ci sono il Venezuela, l’Iran, la Libia, ma anche l’Algeria e molti produttori di petrolio africani, come la Nigeria e l’Angola.
Per il resto dell’Opec non sono comunque rose e fiori. Nemmeno per i colossi del petrolio, quelli che grazie all’oro nero di soldi fino a ieri ne facevano a palate. Se il 2020 si chiuderà con un prezzo medio del barile di 30 dollari (il livello attuale del Wti, che però nei giorni scorsi era sceso sotto 20 dollari) le entrate dei «produttori chiave» si ridurranno del 50-85%, stima l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie). Non si salva nessuno: qualche Paese potrebbe «un po’ mitigare» l’impatto con maggiori volumi, afferma l’Aie, ma rispetto al 2019 si ritroverà comunque con entrate almeno dimezzate.
I produttori di petrolio del Medio Oriente e del Nord Africa – la cosiddetta area Mena – incasseranno almeno 200 miliardi di dollari in meno dagli idrocarburi, prevede l’Institute of International Finance (Iif). Per chi ce l’ha, è decisamente arrivato il momento di rompere il salvadanaio.
I fondi sovrani dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo Persico – compresi gli Emirati arabi, il Kuwait e il Qatar, che hanno investito molto anche in Italia – quest’anno rischiano un’emorragia di 296 miliardi di dollari secondo l’Iif: 80 miliardi verranno monetizzati attraverso cessioni, per tappare le falle nei bilanci statali o per sorreggere valute agganciate al dollaro, il resto saranno minusvalenze.
Il Public Investment Fund (Pif) dei sauditi, con una dote stimata intorno a 300 miliardi di dollari, possiede quote importanti di diverse società, tra cui Uber e Tesla, e ha contribuito con 45 miliardi al Vision Fund di Softbank. In teoria dovrebbe trainare l’emancipazione di Riad dal petrolio. Ma oggi ci sono necessità ben più urgenti.
Le difficoltà non sono limitate al Medio Oriente, né alla cerchia dei Paesi Opec. Oltre alla Russia, tra i colossi dell’Oil & Gas che oggi stanno soffrendo c’è anche la Norvegia, Paese che dispone del fondo sovrano più ricco del mondo, con un portafoglio da circa 950 miliardi di dollari, investito per quasi due terzi in azioni (quest’anno ha già “bruciato” 125 miliardi a causa dei ribassi in borsa).
Oslo possiede partecipazioni in oltre 9.200 società quotate sui principali listini (Italia compresa), per un valore pari all’1,5% della capitalizzazione globale. Nella situazione attuale, secondo Bloomberg, potrebbe vendere titoli per oltre 25 miliardi di dollari: uno tsunami che lascerebbe il segno sui mercati, anche se è improbabile che i norvegesi – consci del loro peso – agiscano in modo frettoloso o disordinato.
Le vendite in Borsa potrebbero anzi essere molto limitate, o addirittura non avvenire affatto, anche se nel Paese scandinavo la crisi dell’Oil & Gas si fa sentire in modo sempre più acuto: il tasso di disoccupazione si è moltiplicato per sei a marzo, al 14,7%: «Alcuni gruppi sono più colpiti, ma vediamo un impatto che si trasmette a tutti i settori», ha commentato l’Agenzia del lavoro.
Il Governo norvegese, afferma il ceo uscente del fondo sovrano, Yngve Slyngstad, è orientato a finanziarsi in prima battuta sul mercato dei bond. Nonostante i «rainy days» il fondo potrebbe persino comprare azioni (come aveva fatto con una strategia di successo nel 2008-2009) per approfittare della valutazioni scontate e per riequilibrare il portafoglio, in cui la quota equity deve mantenersi intorno al 70%. L’alternativa è che venda obbligazioni o liquidità.