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 2020  aprile 05 Domenica calendario

Biografia di Marina Abramovic

Ho scoperto il lavoro di Marina Abramovic con grave ritardo, grazie alla performance The Artist is Present, organizzata al MoMA nel 2010. Devo confessarlo, per molto tempo sono stato scettico, e andai a vedere la performance con una buona dose di pregiudizio: a New York non si parlava d’altro, e l’intera attività del MoMA era polarizzata sulla sua performance. Marina era seduta in mezzo alla sala centrale del primo piano e si limitava a fissare negli occhi, per un’intera giornata, tutti coloro che desideravano sedersi di fronte a lei. Una lunghissima fila si formava sin dall’alba, e visitatori da ogni parte del mondo si mescolavano alle celebrità per potersi sedere qualche minuto davanti a lei. C’era chi scoppiava a piangere, chi sorrideva, chi tremava, chi si limitava a concentrarsi su quello sguardo che riusciva a essere inquisitorio e tenerissimo, minaccioso e spaventato, senza tuttavia cambiare mai espressione. Era un rito catartico, che ha avuto il momento di massima intensità quando si sedette davanti a lei Ulay Laysiepien, in passato suo compagno nella vita e nell’arte. Rimasi folgorato, e volli a tutti costi conoscerla, specie dopo aver sentito questa sua dichiarazione: «La gente ha talmente tanto dolore dentro di sé da non accorgersene». 
Ripensando a quegli sguardi e quei momenti di commozione, mi chiesi da dove provenisse il suo, di dolore, e da dove nascesse la necessità di trasformarlo in arte e poi esibirlo. La invitai a dialogare insieme a Daniel Libeskind sui film che avevano segnato la loro rispettiva esistenza, ed ebbi una nuova rivelazione quando scelse Il colore del melograno, di Sergej Iosifovič Parajanov. Non si trattava solo di un omaggio a un magnifico film visionario, ma anche ad un artista che venne perseguitato dal regime comunista per la libertà delle sue idee e la sua omosessualità. Marina ne parlò in maniera commossa, profonda, ironica, e con un grandissimo senso dello spettacolo: «Puoi dire le verità più atroci, se usi bene l’ironia».
Alla fine dell’evento scherzò sulla definizione di «nonna della performing art», che lei dà di se stessa e poi parlò di nuovo di Parajanov, che come lei aveva costretto gli spettatori a confrontarsi con il dolore, il sangue e i limiti del corpo, che pure sa amare, godere e gioire: «Bruce Nauman teorizza che l’arte è una questione di vita e di morte. Mi sembrava melodrammatico, ma ha assolutamente ragione».Quando le chiesi di un tema costante nel suo lavoro mi disse che si era resa conto «di aver voluto sempre dimostrare che sono in grado di sopravvivere da sola, e non ho bisogno di nessuno».
È nata a Belgrado, Marina, in una famiglia che lei definisce di «borghesia rossa». Sono stati i nonni, ad educarla, e deve a loro, religiosissimi, la prima esperienza del rito e della liturgia. Il prozio era Varnava Rosic, carismatico patriarca della chiesa serba ortodossa, e i genitori Danica e Vojin hanno combattuto come partigiani nella seconda guerra mondiale: alla fine del conflitto vennero celebrati come eroi, ottenendo dei posti di rilievo nella nomenklatura di Tito. Con loro ebbe un rapporto drammatico, in particolare con la madre, severissima, che arrivava a punirla fisicamente. Tutti questi elementi sono presenti in Vita e morte di Marina Abramovic, un’altra performance catartica, strutturata come uno spettacolo teatrale per la regia di Robert Wilson. Fino a quando aveva 29 anni non le era permesso di uscire oltre le dieci di sera, e oggi racconta: «All’epoca facevo già le mie performances, il che significa che mi tagliavo, frustavo e bruciavo, fin quasi a morirne, prima delle 10: non è folle?».
Quel che era peggio era il rapporto violento tra i due genitori: ancora oggi racconta con angoscia una lite durante la quale il padre distrusse, uno dopo l’altro, dodici bicchieri da champagne. Fu l’arte a salvarla: la studiò, la insegnò e la creò, mentre visse una intensa storia d’amore con Nesa Paripovic, che divenne il suo primo marito. Raggiunse il successo nel 1973, con Ritmo 10, durante il quale si tagliava in scena di fronte a un pubblico sconcertato: «quando entri nella dimensione della performance, riesci a spingere il tuo corpo a fare cose che non farebbe mai». Durante Ritmo 5 rischiò di morire, e in un’occasione fu salvata dall’intervento di un medico presente tra gli spettatori. 
Decise quindi di trasformare questa difficoltà in opportunità, e in Ritmo 2 inserì un momento di incoscienza indotta da alcuni medicinali: «Non è importante quello che fai, ma lo stato mentale in cui lo fai», spiegò. La serie intitolata Ritmo continuò con una serie di trovate sconvolgenti, che fecero di lei un’icona dell’arte contemporanea. Tuttavia è con Ritmo 0 che raggiunse il momento più intenso e provocatorio: mise a disposizione degli spettatori 72 oggetti diversi con i quali potevano agire per sei ore a piacimento sul suo corpo. Gli oggetti, che comprendevano una piuma, una rosa, un paio di forbici, una pistola e uno scalpello, furono utilizzati tutti, procurando anche ferite gravi. La performance venne avvolta da un’atmosfera cupa e aggressiva: ci fu chi le puntò una pistola alla tempia e chi le bucò lo stomaco con la spina di una rosa. Poi, allo scadere delle sei ore, coloro che l’avevano violata fuggirono per evitare un confronto. Non meno controverse le performance con Ulay, del quale racconta «Le coppie, quando si formano, in genere acquistano pentole e piatti, io e Ulay programmavamo la nostra arte». La loro collaborazione culminò con Nightsea Crossing, che li vedeva seduti a fissarsi negli occhi per sette ore consecutive, e, poi Lovers, dove si incontrarono solo per dirsi addio sulla Grande Muraglia Cinese, dopo aver percorso rispettivamente 2.500 chilometri, partendo da posti diversi. Fu la fine dolorosa del loro rapporto artistico e sentimentale, che ebbe anche strascichi legali. 
Negli anni Marina è diventata anche un’icona del femminismo: rifiuta tuttavia etichette e piedistalli, e non perde mai di vista la ricerca sulla fragilità e il dolore. Fa impressione vedere questa donna imponente dedicarsi con passione a questioni domestiche: non c’è volta che venga a trovarci che non vada a curiosare in cucina per studiare la preparazione dei cibi. 
Del resto il suo Spirit Cooking propone ricette evocative quali «13,000 grammi di gelosia». È sintomatico di una ricerca che non accetta confini la collaborazione artistica con musicisti quali Jay Z e Lady Gaga o attori come James Franco, mentre è del tutto inverosimile la voce che l’avrebbe vista coinvolta in riti satanici insieme con Hillary Clinton. 
«Qualunque cosa tu faccia, sei sempre sola», ha dichiarato ultimamente, e fa impressione vedere che nel lungo documentario che le ha dedicato la Hbo abbia deciso di non menzionare Paolo Canevari, l’artista italiano con cui è stata legata per dieci anni. Della propria arte dice che «la cosa più difficile da realizzare è quella più vicina al nulla, perché richiede tutto da te» e teorizza che le idee migliori sono quelle scartate in un primo momento, perché ne abbiamo avuto paura.