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 2020  aprile 05 Domenica calendario

Santuari e moschee piene, così il virus dilaga

In Medio Oriente il fervore religioso si è rivelato finora il miglior alleato dell’epidemia di coronavirus. Prima i santuari sciiti in Iran tenuti aperti anche quando il Covid-19 stava già dilagando. Poi un raduno sunnita in Pakistan a metà marzo, un super-diffusore che ha finito per coinvolgere una mezza dozzina di Paesi. Mentre adesso l’India scopre come un evento in una moschea di New Delhi ha contribuito a un quinto di tutti contagi finora registrati. E infine la falla nel contenimento in Israele, vale a dire le comunità ultra-ortodosse, dove l’epidemia cresce a velocità tripla rispetto al resto dello Stato ebraico per il rifiuto di chiudere sinagoghe e rinunciare alle celebrazioni in piazza delle festività.
Non è un’esclusiva mediorientale, perché anche in Corea del Sud e in Francia, a Mulhouse, grandi raduni evangelici hanno favorito la crisi, mentre in Florida molte chiese si rifiutano di fermare le celebrazioni. Il principio è sempre lo stesso, persino la fede deve subire le sue limitazioni di fronte all’emergenza. Nel Grande Medio Oriente, però, l’influenza e il potere dei leader religiosi è maggiore. L’Iran ha aspettato settimane prima di chiudere i santuari sciiti, a partire da quello di Mashhad, visitato anche da pellegrini dei Paesi del Golfo. Sul fronte sunnita i Paesi arabi hanno reagito in genere con più solerzia, a eccezione del Pakistan.
Ancora oggi il premier Imran Khan esita a ordinare la chiusura delle moschee e ha solo chiesto di «limitare» gli assembramenti. Un lassismo che preoccupa i governatori degli Stati orientali, meno succubi degli estremisti religiosi. Il Sindh imposto il divieto di uscire da mezzogiorno fino alle 15, il momento della preghiera principale il venerdì. Chiunque sarà trovato nelle strade verrà arrestato. Nel del Punjab sono stati istituiti posti di blocco nelle principali città. Il grosso del danno è però già fatto. A metà marzo 250 mila persone si sono ammassate a Lahore per la Tablighi Ijtema, cioè la Riunione per la diffusione della fede, un evento islamico organizzato ogni anno da un movimento integralista deobandi che ha un seguito enorme in Asia meridionale ed è presente in oltre 80 Paesi.
Fedeli reduci dal raduno hanno diffuso il coronavirus in Pakistan, Tagikistan, Kirghizistan e persino a Gaza e forse in Arabia Saudita. Ed è probabile che l’India sia stata coinvolta, oltretutto in periodo di nuove tensioni fra musulmani e indù. Il gigante da 1,3 miliardi di abitanti ha avuto finora soltanto 3 mila contagi ma l’epidemia sta accelerando, con una crescita ieri del 26 per cento. E adesso si è scoperto che 647 casi, oltre un quinto del totale, sono legati un a un raduno religioso tenuto in una moschea di New Delhi a fine marzo, come ha confermato il ministero della Salute. L’evento aveva attirato provenienti da tutta l’India e dall’estero e si teme che l’impatto si manifesti appieno nei prossimi giorni.
La stessa preoccupazione ha spinto il governo israeliano a misure senza precedenti nei confronti delle comunità ultra-ortodosse. Nelle città e nei quartieri «haredi» il tasso di crescita del Covid-19 è triplo rispetto al resto del Paese. Bnei Brak, un centro di 200 mila abitanti, è stato sigillato con posti di blocco militari, mentre 4500 anziani sono stati portati in centri quarantena gestiti dall’esercito. A Bnei Brak il 38 per cento delle persone sono contagiate ma gli abitanti si rifiutano di seguire le norme imposte dal governo. Ragazzini escono di casa, gridano «assassini» e «nazisti» e tossiscono in faccia ai soldati di guardia. Molti haredim non riconoscono l’autorità dello Stato laico. Lo stesso ministro della Salute Yaakov Litzman, del partito askenazita Yahadut HaTora, ha contratto il virus durante una riunione religiosa a Bnei Brak ed è adesso in isolamento. Un paradosso per chi dovrebbe dirigere la battaglia contro il «nemico invisibile» e una grana in più per il premier Benjamin Netanyahu, impegnato a formare un nuovo governo con l’ex rivale Benny Gantz.