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 2020  aprile 05 Domenica calendario

Morire dal soli

Ascolto, ore diciotto, la quotidiana litania dei numeri delle vittime; legge, l’addetto, pronunciandoli con ottusa indifferenza burocratica, un pezzo di carta esiguo e insignificante. Nella epidemia la morte, come nelle guerre, diventa un dato statistico, normale, inevitabile. Vorrei invece indossarlo quell’ elenco, colmarlo di nomi, generalità, indirizzi, biografie brevi o lunghe. Gli anni e le stagioni lo rendono uno specchio dei nostri legami sulla terra, bisognerebbe leggerlo sempre come una trama di affetti, persone con cui spartiamo le opere e i giorni e percorriamo la trama del vivere. 
Brutalità allo stato puro
Ma non è a questo sgarbo dell’anonimato che mi ribello, il cuore balza in petto, l’esercizio dell’orrore mi accerchia. È a quello che occulta, la morte come è diventata oggi nel tempo dell’epidemia, oscena in quanto ferocemente solitaria, braccata dalla vergogna e dalla dimenticanza. La morte riportata alla brutalità dello stato puro. Perché cancella identità, regole, affetti, mutuo soccorso, lutto, lo slancio per gli altri, la solidarietà come dogma. 
Una società viene giudicata in base al suo atteggiamento verso i deboli, le eterne vittime della vita e degli uomini: e chi c’è di più debole, ad esempio, degli anziani, che abbiamo lasciato morire, nelle case di riposo per abbandono e per mancanza di precauzioni, sbarrate ai parenti e volontari, fabbriche letali e dimenticate dove la quarantena ha messo in fuga, salvo encomiabili eccezioni, gli addetti. Ora si studia, con funebre insensatezza, di trasformarle in reparti per infettati: per completare il macabro lavoro. La epidemia che uccide i vecchi, i buonianulla: ecco un nome che è una calunnia. 
I morti del coronavirus, coloro che abbiamo amato, sono diventati essenzialmente assenze, cose abbandonate, respinte, delle spoglie insomma. Nell’orribile smarrimento che si prova allo spettacolo della morte in queste settimane della pandemia si aggiunge un senso ulteriore di frustrazione, di colpa: separati sveltamente dai parenti, abbandonati negli ospedali insuperabili per i non contagiati, occupati a straziarsi in un ossesso scrutinio di sé, a perquisirsi alla ricerca dei segni del male, un colpo di tosse, un rantolo nel respiro. Soli. Trasportati via in colonne di camion militari carichi di bare verso cimiteri disponibili o ancor più frettolosamente cancellati dalla cremazione. Senza che nessun assista, pianga, si insabbi nei dubbi o si riconfermi nella fede. 
Annullati verso la fine
È la seconda morte, quella nella solitudine, diventare estraneo ancor prima dell’ultimo respiro, sentire l’odore, vicinissimo, della fine e non poter spartire più nulla con chi ami. Padri nonni mariti vicini di casa si annullano in ambulanze frettolose, maneggiati da uomini irriconoscibili dietro maschere tute paludamenti anti-contagio. 
Così si muore in Italia nella primavera di un terzo millennio sotto le percosse delle cronache, isolati, fuggire da sé stessi e nella fuga non lasciare fra le braccia di coloro che hai amato neppure una parte del tuo essere la sola visibile, corpo, parole, la sola tangibile che pure non ti assomiglia più, ma, forse, è la sola che sappiamo purtroppo amare. Non possiamo più avere con noi il volto dei morti, la loro serietà misteriosa, indefinibile, che non chiede nulla, non chiama, non ha messaggi, ma che ti lega indissolubilmente alla sola cosa che ci rende uomini, la pietà. 
Tra le crudeltà di questo morbo si dovrà annoverare, non ultima, anche questo avvilimento che ci ha imposto. E’ vero. Da tempo, soprattutto nelle città, la morte non era più come una volta un fatto pubblico, non si muore più circondati dai parenti e dalle persone care cercando di dare una lezione di dignità, magari sillabando a fatica la donazione totale, straziante di se stessi a coloro che ti circondano. O liberarsi dalle colpe da cui non ci si libera, se non indirettamente, con la confessione. La si nasconde come uno sgarbo alla nostra gioia di vivi. 
Ma nelle campagne i vecchi muoiono ancora in casa, parlando fino all’ultimo come se lasciassero cadere una benedizione. Guardando in faccia il Tempo che, nell’ultimo periodo della vita, non è più come uno zampillo, una esplosione. Ma invece di dilatarsi si contrae, si concentra, diventa una spirale che si avvolge verso un punto immobile e indivisibile. 
E le storie di coloro che per paura di sparire in questo modo si chiudono in casa, a morire, e si portano dentro come un doppio veleno, per giorni, insieme al virus questa angoscia, la colpa di essere malati divenuta la forma segreta del loro spirito? Esistono e crescono nel buio di se stesse, prima o poi saranno palesi, avranno nomi e data. Chiusi nella trappola del loro delitto, essere contagiati, sanno che è l’unica strategia per restare con chi amano, e sopravvivere in più di un mondo, impedire al passato di spegnersi, far rivivere frammenti di esistenza, illuminare volti e avvenimenti con la luce, far indietreggiare la sabbia che avvolge i contorni delle cose. Scacciare la Morte. 
È vero. I morti dappertutto ce li portiamo in noi, basta chiudere gli occhi per sentirne il respiro sul collo, sulla spalla la mano fedele. La casa ce li ricorda, una sedia, una stanza, un oggetto hanno ancora la loro impronta, attorno a noi il nostro mondo familiare moltiplica le immagini di chi continua a vivere. Ma se non li abbiamo visti morire prigionieri com’erano nella cruna di una regola di ferro isolare? Cosa hanno mormorato nell’ambulanza che li ha portati via verso la segregazione? Di chi hanno chiesto, invocato? 
L’epidemia è il padrone più duro della guerra, ci spoglia dell’essenziale, la vita, e dell’accessorio, ci costringe a cedere alla disperazione e mette in dubbio anche la certezza che siamo amati.