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 2020  aprile 05 Domenica calendario

Intervista a Giovanni Bazoli

Giovanni Bazoli, come sta passando questi giorni?
«Vivo anch’io questa angosciosa sensazione di essere tutti esposti all’insidia di un male mortale. Un mostro subdolo, non identificabile». 
L’hanno accostato a una guerra. 
«Ho conosciuto la guerra, da ragazzo. Eravamo nascosti perché mio padre era ricercato dalla polizia fascista. Ma sapevamo chi era il nemico. Oggi non sappiamo da dove viene l’insidia alla nostra vita. Può venire anche da un amico, da un familiare; ed è paradossale doversi tenere lontani dagli amici, dai familiari. Una cosa che diventa terribile quando siamo in quarantena, e atroce quando stiamo morendo: soli e coscienti di essere soli. Mi dicono di medici che vedono solo occhi disperati. Ci sono molti modi atroci di morire, ma questo è il peggiore. Un orizzonte drammatico, kafkiano». 
La sua città, Brescia, è duramente provata. 
«Ho lavorato a Milano ma ho sempre tenuto casa e famiglia a Brescia, che ora con Bergamo è la città più colpita al mondo, in proporzione agli abitanti. Quasi ogni giorno apprendo la notizia di un amico scomparso, di un conoscente in gravi condizioni. La mia generazione è decimata. Una generazione preziosa, come ha ricordato Mattarella, e che anche a Brescia contiene figure nobilissime». 
Lei come vive la quarantena? 
«Vedo luci di speranza per il futuro; sempre che non si rivelino fuochi fatui. Mi chiedo come abbia potuto fermarsi all’improvviso la vita nel mondo più avanzato: un evento che nessuno avrebbe mai ritenuto possibile. Pareva un mondo in grado di dominare tutto; invece le potenze che lo guidavano, anche con mezzi tecnologici sempre più invadenti, si sono di colpo rivelate impotenti. Fabbriche spente. Città deserte. Ogni individuo costretto a essere una monade in casa propria. Un senso del tutto nuovo e quasi panico di fragilità della vita e della civiltà, di precarietà di tutte le istituzioni. Questa è una grande lezione di umiltà per un’umanità che si considerava padrona del mondo, dominatrice della stessa vita». 
Lei è credente. Dov’è Dio in un momento come questo? 
«La teologia più avanzata è dominata da questo interrogativo, dopo le tragedie del secolo scorso: se Dio è padre, come ha potuto permetterle? Noi ci poniamo la domanda ora, perché la pandemia investe principalmente il mondo più avanzato; dovevamo porcela per tutte le tragedie del nostro tempo, quasi del tutto ignorate dall’opinione pubblica, tranne minoranze generose». 
Cosa legge in questi giorni? 
«Ho riletto Dostoevskij: un genio, come romanziere e come profeta dei problemi del futuro, quando ne I fratelli Karamazov mette a confronto Dimitri con Ivan, che non può accettare l’idea di un premio eterno se questo ha il prezzo delle torture a un bambino innocente. Anche Camus scrive: non posso credere in Dio se vedo la peste colpire un bambino. Ho riletto anche il libro di Giobbe, che prima si ribella a Dio e alla fine capisce quasi di dover accettare il volere imperscrutabile di Dio, proprio perché è imperscrutabile. Ma credo che questa spiegazione all’uomo moderno non basti più. Anche il cardinal Martini negli ultimi tempi confessava di non saper trovare risposte, parlava di mistero. La spiegazione che il credente può trovare più convincente non è quella di Giobbe; è la vicinanza di Dio a ogni uomo nella sofferenza. Ogni uomo torturato e sofferente rievoca il martirio di Cristo sulla croce. “Dov’è Dio?”, è la domanda che Eli Wiesel in La notte riferisce come sussurrata da un detenuto di fronte alla scena terribile dell’impiccagione di un bambino nel lager. La risposta è: Dio è lì, appeso a quella forca». 
Non pensa che l’Italia avrebbe dovuto prepararsi meglio? Proteggendo medici e infermieri, evitando che gli ospedali diventassero focolai? 
«Non poteva essere previsto un simile numero di malati. Tuttavia grazie alla generosità delle persone sono stati fatti miracoli. Nel complesso il sistema lombardo ha retto». 
Ha retto meglio il Veneto. 

«La Lombardia ha costruito ospedali di ottimo livello, pubblici e privati, a scapito di una strutturazione sanitaria di base, in grado di assistere anche a casa. Il Veneto ha potuto disporre di articolazioni migliori. Però possiamo essere orgogliosi di avere un’assistenza gratuita al livello di Paesi più ricchi del nostro». 
Il governo come si è mosso? 
«L’eccezionalità dell’epidemia l’ha messo in difficoltà. La ripartizione dei poteri tra Regioni e Stato ha creato molti problemi. Conte è stato per me una sorpresa positiva: si è mosso con misura e serietà, senza le giravolte di altri governanti stranieri». 
Cosa c’è in futuro? Si parla di un governo Draghi. 
«Draghi non è solo uno degli italiani più rispettati all’estero; è uno dei pochi leader europei autorevoli. Per l’Italia di oggi e di domani è una grande fortuna averlo a disposizione, nei modi che si vedranno. Può guidare un’altra istituzione internazionale; oppure le nostre istituzioni. Come premier avrebbe bisogno di un’ampia base politica. Nell’attuale situazione di emergenza una crisi di governo non avrebbe senso». 
Lei parlava di speranze. Quali? 
«Vedo una nuova consapevolezza della necessità dello Stato. L’Italia è storicamente minata da questa distanza tra uno Stato inefficiente e molti cittadini miopi ed egoisti. Aziende “naïf”, che però sono il tessuto portante del Paese, considerano da sempre lo Stato come un nemico da cui difendersi. La pandemia porta a rivalutare la sfera pubblica: oggi per garantire la salute, domani la stabilità del sistema creditizio e finanziario, dopodomani la pace. Tutti hanno percepito che da soli non avrebbero potuto vincere il male, che serviva un impegno comune. Il dramma può essere servito a ritrovare il senso civico. A riscoprire un orgoglio, una dignità nazionale. Gli italiani stanno dando al mondo, che non sempre li prende sul serio, una prova migliore di sé: una prova di generosità, grazie all’abnegazione eroica di medici e infermieri, ma anche alla compostezza nonostante alcune sfumature dell’intera popolazione. Forse ci stiamo un po’ riscattando agli occhi del mondo». 
Ci attende la ripresa o la recessione? 
«Dipende dalla profondità con cui questa esperienza eccezionale avrà inciso nelle coscienze individuali delle donne e degli uomini del nostro Paese. Io voglio credere che tutti abbiano compreso che il mondo non sarà più uguale a quello di prima. Prima procedevamo sicuri di noi, in un mondo sicuro, che invece era un mondo malato, come ha detto papa Francesco. Saremo obbligati a rivedere il nostro modo di vivere, a riscoprire la gerarchia dei beni e dei valori essenziali. Se questi propositi non saranno travolti dalla forza inerziale delle nuove routine, l’Italia si riprenderà. Altrimenti si avvierà lungo la strada di un declino sempre più irreversibile. Siamo a una svolta storica. La tragedia che stiamo vivendo può essere considerata uno spartiacque. La prova avrà la stessa importanza di quella affrontata e vinta nel dopoguerra». 
Non è scandalosa la mancanza di solidarietà dell’Europa? 
«Possiamo e dobbiamo chiedere aiuto all’Europa per fronteggiare sia le necessità sanitarie, sia quelle economiche e finanziarie derivanti dalla pandemia. L’Europa deve accogliere questa richiesta, non chiudersi in una nuova lega anseatica. Ma serve anche un grande sforzo domestico, italiano». 
Avremo gli eurobond? 
«Sì, ma difficilmente subito. Potremo ottenerli quando avremo avviato le nostre riforme». 

Quali? 
«Le riforme dell’impresa, del lavoro, del Fisco, della scuola, per ritrovare la produttività. A questo devono provvedere gli italiani». 
Anche con una patrimoniale? 
«La patrimoniale non è possibile politicamente, e darebbe un gettito inferiore alle aspettative. Resta il fatto che abbiamo un anomalo rapporto tra grande debito pubblico ed enorme ricchezza privata: 4.374 miliardi di attività finanziarie delle famiglie (contro 926 miliardi di passività), 1.840 miliardi di attività finanziarie delle società non finanziarie; contro 2.409 miliardi di debito pubblico. Penso a un grande prestito non forzoso, finanziato dagli italiani e garantito dai beni dello Stato. Ne hanno scritto Ferruccio de Bortoli e Giulio Tremonti». 
Pensa davvero che gli italiani saranno d’accordo? 
«Sì, se troveranno conferma le qualità morali emerse in questi giorni. Se non si perdono quei sentimenti, se si mantiene questa virtù civica e repubblicana, possiamo realizzare un grande piano di ricostruzione nazionale. Non bastano cento miliardi; ne servono trecento. Meno del 7% della ricchezza finanziaria delle sole famiglie potrebbe segnare la svolta che cambia la storia d’Italia. Soldi da destinare alle riforme produttive». 
Anche il sistema bancario dovrebbe fare la sua parte. Quale contributo può dare? 
«Sul sistema bancario l’Italia può fare affidamento; perché tranne qualche eccezione è fondamentalmente sano. Ha saputo rafforzarsi anche attraverso le integrazioni dell’ultimo decennio del secolo scorso e del primo di questo secolo. Prima di questa catastrofe avevamo alcune delle banche più solide ed efficienti d’Europa». 
E dopo la catastrofe? 
«L’intero sistema del credito sarà messo a dura prova, ma le banche italiane faranno la loro parte». 
Eppure le banche sono molto impopolari nell’opinione pubblica. Non hanno qualcosa da farsi perdonare? Come devono agire adesso? 
«Non ho ruoli operativi da anni. Ma sono convinto che le migliori banche sapranno trovare gli strumenti giusti per finanziare le famiglie e le imprese». 
E lei qual è la prima cosa che farà appena potrà uscire? 
«Andrò per le vie di Brescia, seguendo i percorsi che mi sono abituali. Lo farò con il bisogno fortissimo di verificare che sia ripresa normalmente la vita di tutti, la vita dell’intera comunità. Quando si muore, il maggior conforto è affidare alla comunità in cui si è vissuti quel poco, che in un severo bilancio spirituale è sempre troppo poco, che si è riusciti tra mille contraddizioni a costruire».