Corriere della Sera, 5 aprile 2020
Le salme di Milano fino a Civitavecchia
MILANO La salma della signora F. E., 79 anni, morta il 24 marzo nel suo appartamento alla periferia Nord di Milano, è stata portata a Domodossola. Sono passati 12 giorni. Quando tornerà indietro? «Non lo so – risponde al Corriere ieri pomeriggio la sorella, 76 anni —, gli addetti delle pompe funebri sono molto gentili, ma non li sto più chiamando. Nessuno è in grado di dirmi nulla. Aspetto».
Ieri mattina i corpi di altri anziani morti in città hanno dovuto affrontare un viaggio più lungo. Milano-Civitavecchia, 550 chilometri. Fino a tre giorni fa li hanno portati a Torino, poi anche lì dal cimitero hanno detto «basta, non possiamo più accettare salme da fuori città per la cremazione». Eccolo, l’effetto ultimo e più sconfortante del passaggio del Covid-19: non il corteo delle bare scortate dall’esercito per portar via i morti da Bergamo, ma queste centinaia di ultimi viaggi che gli uomini e le donne di una generazione decimata, morti soli e lontani dalle famiglie negli ospedali e nelle case di riposo, stanno affrontando verso mezza Italia perché Milano, la loro città, non riesce più ad accoglierli da defunti. «La cremazione è un diritto, rientra tra le ultime volontà», spiega Massimo Cerato, titolare delle onoranze funebri «San Siro», impresa milanese e tra le più importanti in Italia. Riflette: «Oggi cosa dovremmo dire, che quel diritto e quelle volontà non esistono più? Da Milano abbiamo portato le salme a Torino chiedendo un minimo contributo alle famiglie; ora le stiamo portando a Civitavecchia e ci facciamo carico noi del servizio, perché siamo la “San Siro” ed è un modo per stare vicini alla comunità in questa catastrofe. Ma poi dove andremo?».
A breve anche nell’impianto crematorio di Civitavecchia non accetteranno più «non residenti». Gli anziani milanesi per le cremazioni sono finiti a Valenza, Mantova, Domodossola. Forse si arriverà fino ad Avellino.
Lunghi viaggi, famiglie che pensano ai loro morti in coda con decine di altri in cimiteri lontani, attese sempre più lunghe per riavere le urne, pochissime informazioni. L’intera liturgia del rito funebre si sgretola. «Le famiglie comprendono, capiscono», racconta Cerato. La sensazione è che siano annichilite.
A Milano ormai da anni il 70 per cento dei defunti viene cremato. Il sistema però era già in difficoltà: l’impianto del cimitero di Lambrate (l’unico della provincia) ha cinque linee; una era in manutenzione da settimane; le altre sono state chiuse venerdì scorso, perché la mortalità è salita talmente tanto che i tempi di attesa (dai normali 3 o 4) sono saliti a 20 giorni. La cremazione è stata prima chiusa ai non residenti, poi l’impianto è stato interdetto per tutti, compresi i milanesi.
«Purtroppo c’erano già delle pesanti carenze organizzative e con il coronavirus il sistema non ha retto più», spiegano i titolari delle onoranze funebri. «Non si è mai aperto il servizio di cremazione ai privati, pur sotto stretta regolamentazione, e in questo momento il settore pubblico non riesce ad affrontare l’emergenza».
Così oggi le famiglie dei morti milanesi hanno 72 ore di tempo per definire una sistemazione: altrimenti le salme vengono sepolte «d’ufficio» dal Comune. Anche alcuni cimiteri sono in difficoltà: ad esempio quello nel quartiere Baggio accetta soltanto chi abitava nelle zone coperte dalle due parrocchie vicine. E così si moltiplicano i viaggi per le cremazioni verso il resto d’Italia: perché in forma più diffusa e meno evidente rispetto a Bergamo e Brescia, l’ondata dei morti da coronavirus si sta allargando su Milano.
Ieri nell’obitorio del Pio Albergo Trivulzio, antica istituzione per l’assistenza agli anziani, c’erano 28 salme. Martedì scorso i responsabili dell’ospedale «Niguarda» hanno dovuto chiedere al cappellano di ospitare i defunti nella cappella al centro dei reparti: 18 bare e corpi nei sacchi neri appoggiati sulle panche.
Milano aveva una media di 45 decessi al giorno. Nelle ultime settimane sono diventati 90, 100, 120, nei giorni peggiori anche 180. «Stanno morendo in ospedale, nelle case di riposo, nelle abitazioni private; stanno morendo ovunque», racconta Cerato. L’assessore ai Servizi civici del Comune, Roberta Cocco, ha spiegato: «I mesi di gennaio e febbraio e la prima metà di marzo sono in linea con gli anni precedenti ma, a partire dalla seconda metà di marzo, abbiamo osservato un incremento notevole delle morti, anche a causa dei decessi più che raddoppiati tra gli ospiti delle Rsa cittadine e nelle abitazioni private. Incrementi che hanno saturato la capacità del Crematorio».
L’aumento imponente dei decessi a Milano è iniziato intorno al 20 marzo, dopo le restrizioni e la chiusura delle città. Un’onda violenta, perché in meno di due settimane ha provocato un eccesso di circa 1.300 decessi. Ha spiegato al Corriere Carlo La Vecchia, epidemiologo e ordinario di Statistica medica all’università Statale: «Se abbiamo avuto ben oltre mille morti in più dovuti al Covid fino al 31 marzo, considerando che l’ondata di decessi è partita a metà mese, cosa succederà in aprile?». In aprile, per ora, decine di famiglie attendono notizie dei propri fratelli, dei propri padri, delle proprie sorelle: morti e portati lontani da Milano.