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 2020  aprile 05 Domenica calendario

Tutto solo sul volo per l’Etiopia

«Possiamo metterla ai voti, questa scelta di partire?», ha chiesto infine una delle figlie. No, ha risposto lui, «sennò anche i nipotini dovrebbero votare e a quel punto…» A quel punto sarebbe stato ancora più difficile andare fino in fondo nella decisione di partire per il viaggio verso l’ignoto forse più ignoto di tutta la sua vita. E così, l’altro giorno, il medico Giovanni Putoto ha preso il volo della Ethiopian Airlines per Addis Abeba. Unico passeggero a bordo. Unico. Nel vuoto di un Boeing dalla grandezza spropositata. In tempi normali pieno zeppo di passeggeri che vanno e vengono dall’Europa verso uno degli Stati che più rapidamente si stanno sviluppando al mondo.
La paura del coronavirus ha contagiato ormai tutti prima ancora che il virus stesso. E tutti sanno quello che il dottor Putoto sa forse meglio di tutti: se il Covid-19 scoppia in Africa, «sarà un’ecatombe». Per capirci: «In tutto il continente i letti per la terapia intensiva sono uno per ogni milione di abitanti. Siamo sull’orlo del baratro». Le hostess gli si sono premurosamente avvicinate a distanza di sicurezza. Tutte con la mascherina. «Il signore desidera qualcosa?» No, grazie: «Ho preferito non correre rischi. Non toccare nulla… Ci siamo parlati con gli occhi. Poi il personale è andato davanti in business. Io sono rimasto verso la coda. Solo. Senza mai abbassarmi la mascherina. Mi sono guardato la serie de “Il signore degli anelli”. Ci siamo rivisti, con l’equipaggio, solo all’uscita». Dove c’era un poliziotto che ha condotto il passeggero a un pulmino diretto verso un albergo del centro. Quarantena: «Era nei patti. Mi avrebbero accettato in Etiopia solo se mi fossi sottoposto all’arrivo, prima di andare a Wolisso e in altri ospedali, all’isolamento totale per due settimane». Sospira: «Questo virus è una bestia brutta. Molto brutta».
Eppure Giovanni ne ha viste davvero tante, in vita sua. Entrato quando doveva ancora finire l’università nel giro del Cuamm, l’organizzazione padovana dei Medici con l’Africa animata per decenni da Don Luigi Mazzucato, partì la prima volta subito dopo essersi laureato e sposato. Era il 1988, aveva ventotto anni. Prima destinazione l’ospedale di Aber, nel nord dell’Uganda. Anni violentissimi. Di guerra. Da allora rimase in Africa dieci anni consecutivi, con rare interruzioni di studio per aggiornamenti sulla medicina tropicale a Liverpool e a Leeds, tirando su via via quattro figli, due maschi e due femmine. Da Aber a Kampala, poi in Ruanda dalla fine di maggio del 1994, nei mesi dello spaventoso genocidio degli Hutu contro i Tutsi. Poi ha lavorato negli anni duri nel Kosovo, collaborando col contingente di pace italiano a Peje. E dopo essere rientrato finalmente a Padova per lavorare all’ospedale universitario, ha continuato a collaborare col Cuamm occupandosi della programmazione e della ricerca per precipitarsi nel 2014 anche nell’inferno della Sierra Leone, sconvolta dal virus dell’Ebola. 
«È spaventoso, l’Ebola, su 100 infettati te ne morivano settanta». Due numeri dicono tutto: 3.956 morti e di questi 221 medici e operatori sanitari. In un paese di 8 milioni di abitanti. Una strage. «La differenza col Covid-19 è che con l’Ebola l’infezione avviene con il contatto diretto: con il sangue, la saliva, lo sperma, le lacrime, le feci o il sudore di chi già è contagiato. Non devi toccare niente. Niente. E devi lavarti continuamente. In qualche modo, però, non dico che sia meno contagioso, assolutamente, del coronavirus. Ma il Covid-19 e per certi aspetti più infido. Può infettarti senza che tu riesca quasi a capire come». 
Dice che no, non può dire di essere più preoccupato oggi di quando si tuffò nel pantano mortale della Sierra Leone: «Diciamo però che ho la guardia più alta. Perché il nemico è ancora sconosciuto. E occorre stare attenti a tante variabili». In una situazione, sull’orlo del vulcano, che potrebbe essere catastrofica: «In tutta l’Africa ci saranno non più di 7000 posti letto di rianimazione. Di questi 4000 nell’Africa Subsahariana. E il Covid-19 è già arrivato in 50 paesi su 54. In Italia ci sono quaranta letti attrezzati ogni 10.000 persone, in Mozambico 0,38. Se scoppia qua, partendo probabilmente da qualche megalopoli come Il Cairo o Lagos, che ha 16 milioni di abitanti, sarà un disastro. Pensiamo solo una cosa: qual è la prima raccomandazione? Lavarsi, lavarsi, lavarsi. Ma se qui non c’è manco l’acqua!»
C’è chi si chiederà: con l’emergenza gravissima che c’è in Italia ha davvero senso mandare giù un medico in Africa? «Saranno almeno 1500 i “nostri” medici che stanno già dando l’anima in questo momento nelle corsie degli ospedali italiani», spiega Don Dante Carraro, medico e prete, che del Cuamm è il direttore, «e sono tutte persone che mettono a frutto quello che proprio in Africa hanno imparato. Gente che non perde la testa neanche nei momenti più critici. Che inventa soluzioni quando soluzioni non sembrano esserci. Che sa bene cosa sono le emergenze». Di più: avere quell’antenna di ventitré ospedali in Africa può aiutare a capire cosa succede davvero a un miliardo di persone alle nostre porte. E forse a prevenire l’apocalisse.