Ci manca il linguaggio per descrivere tutto questo?
«L’Occidente ci ha abituati a riconoscere i sintomi di una malattia e a reagire a livello individuale. Ma tutto quello che sta accadendo a livello collettivo lo ignoravamo. Va oltre la nostra immaginazione. Con che lingua possiamo raccontare questo “noi” disperato nel quale presto potrebbe crescere la rabbia? Questo noi che credevamo al riparo dalle sciagure, dalle guerre e dunque dalle pandemie. Non ti sto facendo un discorso medico che non mi compete, ma antropologico: saremo ancora noi tra un anno o due? Sarà ancora Piacenza la città che ho conosciuto, amato, detestato?».
Ci sei anche nato?
«Ci sono nato e vissuto, su questo crocevia che confina con più regioni. Siamo la provincia più a destra dell’Emilia. Perché la base sociale era più agricola che industriale. Mentalità conservatrice, sospettosa nei riguardi del nuovo».
Tu come reagivi?
«Era come se la cosa non mi riguardasse. Allora, parlo dei miei anni giovanili, ero una specie di vitellone. Mi piaceva leggere ma non studiare. Ero iscritto a Legge ma speravo di fare il giornalista. Erano i sogni o forse le pretese o forse i privilegi di un provinciale».
Pensi di averli realizzati?
«Certo che no. Negli anni Cinquanta si stava su un crinale piuttosto confuso. Poi arrivò il 1960, che io considero l’anno decisivo della nostra storia. Il Paese si modernizzò. La coscienza politica crebbe dopo i fatti di Genova e io cessai di essere il vitellone».
Realizzasti la cosa più bella che potevi immaginare: “Quaderni Piacentini”. Come ti venne in mente?
«Potrei dirti che era nell’aria. La verità è che nel 1961 uscì a Torino la rivista Quaderni Rossi di Raniero Panzieri. Mettevano al centro i temi della fabbrica. Noi pensammo di spostare il focus sulla società e l’individuo. Così nel 1962 varammo la nostra rivista. Evitammo il conformismo del nostro tempo, ci piazzammo distanti dalle sirene ideologiche del Pci. Un po’ come aveva fatto Il Politecnico. Quando uscì la rivista di Vittorini, ebbi un’impressione straordinaria, credo dovuta alla sua totale assenza di rigore ideologico».
Ti attrae il pensiero disordinato?
«Mi attrae tutto quello che non è prevedibile o scontato. Vale nella vita e nelle idee, come pure vale per i libri, che fanno parte sia della vita che delle idee».
Sui “Quaderni Piacentini” tu firmavi una rubrica: i libri da non leggere.
«È vero, ma mi pentii quasi subito».
Perché? In fondo la provocazione ci stava.
«Lo capisco, anche perché la nostra società letteraria raramente stronca. Ma quella rubrica, firmata non solo da me, si rivelò troppo casuale e cosparsa da errori di valutazione clamorosi. Un abbaglio colossale fu di inserire tra i libri da non leggere Lolita di Nabokov».
Impiccaste anche “La vita agra” di Bianciardi.
«Fu un altro infortunio. Ma forse in quel caso ci infastidiva l’alone vagamente maudit del bar Giamaica, con le sue innocue provocazioni artistiche».
Era un porto di mare.
«Con pochi vascelli arrembanti e molte placide barchette».
Non ti incuriosiscono i luoghi che diventano leggenda?
«No, anche perché la trasfigurazione immaginaria di certi posti, come insegna Borges, è una disciplina per pochi eletti».
Anche “Quaderni Piacentini” si è rivestita di un alone leggendario.
«Abbiamo avuto fortuna. La rivista partì con duemila copie e arrivò nel Sessantotto a venderne dodicimila. Tu dici leggenda. La verità è che a un certo punto mi stancai di farla. Pensai che avesse esaurito il suo compito. Fu solo grazie all’ostinazione e al sacrificio di Grazia Cherchi che la rivista continuò. Fosse stato per me, l’avrei chiusa negli anni Settanta».
Le cose finiscono.
«Bisogna rallegrarsene, pensa che noia proseguire a oltranza. Anche se ti confesso che quando con Alfonso Berardinelli facemmo Diario fu lui a voler smettere e io, sotto sotto, avrei continuato. Buffo, no?».
Neanche tanto, in fondo dai di te l’immagine di uno molto libero.
«Ho sempre pensato che la libertà sia più un fatto esistenziale che morale».
Ti senti libero ora?
«Che intendi?».
Sei recluso in casa, come fossi agli arresti domiciliari.
«È una situazione sconosciuta. Non ho esigenze particolari, sono vecchio, dovrei sentirmi protetto in casa. E invece mi sembra pazzesco».
Immagino che dedicherai molto tempo alla lettura.
«Più che leggere, rileggo».
Non ti piacciono le novità?
«È raro trovarne di soddisfacenti. Se guardo ai libri italiani mi spavento».
Perché?
«Uno scrittore italiano oggi a chi parlerebbe?».
Che cosa impedisce una parola alta, convincente e condivisa, magari poetica?
«Non lo so. Mi fai venire in mente Montale quando disse, un po’ provocatoriamente, può mai esistere un grande poeta bulgaro?».
Perché no?
«Ma sì, può esistere se c’è stato un grande scrittore come Canetti. Ma non è questo il punto. Una letteratura si deve nutrire delle trasformazioni sociali. Non rispecchiarle. Almeno non necessariamente. Ma respirarle sì. Avresti avuto il primo rinascimento americano, quello che precede la Guerra civile, con i suoi Thoreau, Hawthorne, Whitman, Melville e magari Poe — senza il risveglio del gigante?».
Leggi ancora Melville?
«No, mi piacerebbe riprendere in mano Bartleby o Benito Cereno. Mi spaventerebbe affrontare nuovamente Moby Dick».
Perché ti spaventerebbe?
«C’è un’ossessione incoercibile che non so se riuscirei a sopportare. Preferisco dilettarmi con Flaubert o magari Dostoevskij».
Alternativa secca?
«Sono diversi, non c’è dubbio. C’è in Flaubert un lato visionario e una satira vendicativa che non trovo in Dostoevskij».
Vendicarsi di cosa?
«Dell’ordine morale dei vari Homais. Flaubert è convinto che il disordine morale di Emma Bovary sia decisamente superiore alle ipocrisie e alle mediocrità dell’epoca. Che egli rappresenta nell’orrendo microcosmo di Yonville».
I sogni di Emma la sollevano dalla grettezza del luogo in cui vive.
«Ma sono sogni velleitari i suoi, come del resto lo sono quelli di Bouvard e Pécuchet».
Si somigliano?
«In un certo senso sì. Cambia l’oggetto del sogno non il motore che fa sognare. Emma desidera l’amore, la ricchezza, il prestigio sociale, il successo, l’arte. Mentre Bouvard e Pécuchet aspirano alla scienza e alla verità. Tutti i loro esperimenti falliscono, qualunque loro impresa — dal giardinaggio all’agricoltura, dalla lettura del pensiero all’astrologia, dalla pratica medica alla rabdomanzia — naufraga miseramente. Sono dei falliti di talento. Eroi del no. Torneranno a fare i copisti. Gli umili scrivani, come Bartleby».
Sono anche due meravigliosi cretini.
«Sono le vittime del progresso. E come Emma anche loro avranno tutti contro: il prete, il nobilotto, il notaio, il sindaco, i bottegai. La loro diversità è irriducibile all’ipocrisia, al conformismo, al profitto. Se ne infischiano degli affari».
In Dostoevskij invece cosa trovi?
«Parliamo di letteratura russa dove mancano quasi del tutto i romanzi di intrattenimento, quelle letture amene ricche di convenzioni. Lo scrittore russo tende a coincidere con la figura dell’educatore; si erge a coscienza morale e, nei casi estremi, a predicatore o agitatore. Dostoevskij rientra in questa casistica: il pensiero è la sostanza della sua opera».
È uno scrittore per incalliti intellettuali.
«I suoi personaggi principali sono intellettuali più o meno disincantati. Mi piace di più nella descrizione dei personaggi minori. “La leggenda del Grande Inquisitore”, che è il momento più alto dei Fratelli Karamazov, non mi ha mai coinvolto».
Ho visto nelle tue note di lettura un grande apprezzamento per Dickens.
«Nonostante certi suoi eccessi patetici, è di gran lunga il più grande scrittore inglese del suo tempo. E poi una certa componente sadica lo riscatta dal moralismo. Dostoevskij subì l’influenza di Dickens, almeno per certe descrizioni dei mutamenti sociali. Ma quest’ultimo non fu mai un intellettuale. Il suo genio era tutto istintivo».
Hai una predilezione per macchine narrative semplici?
«Mi piacciono le descrizioni che anticipano o rappresentano un’epoca, la scuotono come un albero con i suoi frutti. Per questo non sono mai riuscito a riprendere in mano L’uomo senza qualità, nonostante le sollecitazioni del mio amico Cesare Cases».
Degli scrittori di lingua tedesca chi ami?
«Su tutti Thomas Mann. Lo preferisco a Kafka, il quale resta uno straordinario scrittore di racconti e di parabole. La Tana è un capolavoro. Ma i romanzi faccio fatica a rileggerli. Mann è un narratore, Kafka è un geniale rabbino».
Hai un metodo per leggere?
«No, tranne quello di usare la matita prendendo appunti. Ma ci sono pagine delle quali non comprendo più cosa ho sottolineato. Tutto dipende dall’età in cui si è letto un certo libro. Ti faccio un esempio. Oggi non ce la farei più a leggere Adorno. Negli anni Cinquanta era il mio nutrimento. Perfino Minima moralia tradotto dal mio amico Renato Solmi mi lascia indifferente. Ma poi sai qual è la verità?».
Dimmi.
«Che di Adorno io avrò capito sì e no un venti per cento. Non so se al liceo lo avrei eletto a mio maestro».
Quale è stato il tuo primo libro o romanzo?
«Pinocchio, di cui conservo un giudizio straordinariamente alto: esibisce la ribellione alle regole, elogia la disubbidienza, ci dice che si può essere bugiardi per necessità o per difesa e racconta un’Italietta miserabile. Vi sono paesi dove si può mangiare senza il pericolo di essere mangiati? La battuta di Pinocchio mostra le sciagure che incombono su di noi. Ora che sono vecchio vorrei tornare a qualche libro dell’infanzia».
Parlavamo della tua segregazione.
«La subisco con rassegnazione. Uno dei problemi della vecchiaia è che non ti appassioni più a niente. In me prevale il tedio. Da anni, ti confesso, non mi diverto più».
Stiamo cambiando stile di vita.
«È vero, ma più per necessità che per convinzione. Oggi tutti pensano a proteggere la salute e spero che alla fine se ne esca bene. Ma temo la batosta economica. Già eravamo messi male. Cosa ci accadrà? La nostra classe politica, al netto di questa situazione, ha contribuito a far degenerare questo mondo. I nomi di coloro che ci guidano o stanno all’opposizione non mi dicono nulla. Mi sembra di vivere in un Paese sconosciuto».