«Secondo me il termine malinconia corrisponde a una dimensione colma di desideri perduti», risponde dalla sua casa nella campagna tedesca, in un luogo non distante da Stoccarda, il celebre pianista iraniano, del quale a fine maggio uscirà per l’etichetta discografica Decca il concept album Malinconia, da lui pensato e organizzato come «un itinerario nelle più variegate declinazioni musicali di quel sentimento», spiega. «La malinconia può avere aspetti propositivi nella sua accezione di memoria nostalgica, capace di far scaturire idee ed ispirazioni. Emerge molto in un periodo tremendo come questo, che per esempio annulla la fisicità dei rapporti umani. Rinchiusi e isolati, ci struggiamo per la mancanza di cose normali, come i gesti quotidiani che prima davamo per scontati. Vedi l’abbraccio, il bacio o la stretta di mano. Solo quando certe piccolezze ci vengono sottratte ci accorgiamo del loro profondo valore».
Nato a Teheran nel 1976 ed emigrato in Europa da adolescente, lasciando il suo Paese dove l’ascesa al potere dello ayatollah Khomeini e l’instaurarsi di un regime religioso integralista avevano portato all’incarcerazione di suo padre, il quale sarebbe poi morto in prigione, Ramin ha conquistato il successo grazie a un rapporto con Bach talmente intenso e totalizzante da apparire ossessivo. Per questo nuovo album, il primo dove spazia anche in repertori differenti dalle sue consuetudini bachiane, ha scelto brani di una rosa di compositori che da Domenico Scarlatti arriva fino a Luciano Berio, passando per Chopin, Schumann, Liszt, Brahms, Ciaikovskij, Debussy, Ravel ed altri.
Maestro Bahrami: perché ha deciso di comporre un affresco musicale sulla malinconia?
«Coltivavo questo progetto da due anni, spinto da una percezione forte dell’approssimarsi della catastrofe. Tra distruzione ambientale del pianeta e mania perversa del profitto, il mondo è diventato più che mai frenetico e assordante. Sono andato in cerca di musiche che rappresentassero una mia lettera malinconica all’umanità. Noi artisti sentiamo i rivolgimenti in anticipo, come fanno i cani con i terremoti. Sapevo per istinto che la Terra aveva raggiunto un punto di saturazione, e che qualcosa di enorme avrebbe ribaltato numerose logiche vigenti».
È giusto applicare al nostro presente uno stato d’animo come la malinconia, inclusivo di sfumature delicate e calme? Direi piuttosto che siamo assillati dall’ansia, dal panico e dal timore del futuro.
«Sono convinto che l’essere umano, per sua natura, tenda alla speranza e al riscatto. Sogniamo tutti un ritorno alla normalità, e in questo momento difficilissimo non va sottovalutata l’importanza imprescindibile dell’arte. Un’arte forse malinconica, ma non disperata. Non dobbiamo smarrirci nella disperazione, che è qualcosa di non associabile alla malinconia. È vero che la scienza deve andare avanti: trovare cure e vaccini costituisce una priorità fondamentale. Ma non bisogna dimenticare ciò che ci rende umani e finire per accantonare patrimoni preziosi quali la musica, la pittura e la letteratura. Sarebbe distruttivo annientare l’arte. La nostra interiorità va sostenuta di pari passo con la nostra salute. La musica può lenire l’oppressione provocata in noi da questa guerra contro un nemico invisibile».
Lei di guerra se ne intende.
«Io sono un figlio di guerra: a dannare la mia infanzia ci fu il lungo conflitto tra Iran e Iraq, che ho vissuto dai cinque ai nove anni. Quella era una guerra vera, piena di missili e bombe. So sulla mia pelle cosa significa sentir suonare le sirene, doversi nascondere in cantina e non sapere se la casa esploderà. Adesso è in corso una guerra diversa, viziata, di lusso, dove potenti nazioni occidentali stanno cercando d’intervenire per dare sussidi ai cittadini».
Quale è l’epoca più malinconica nella storia della musica?
«Lei si aspetta che io risponda il romanticismo? E invece la spiazzerò dicendole che è il barocco. L’apice della malinconia lo ha raggiunto Bach, come dimostra il pezzo bachiano che chiude il mio nuovo album, cioè il Preludio corale Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ BWV 639 (“Ti invoco, Signore Gesù Cristo”) nella trascrizione per pianoforte di Ferruccio Busoni. È una delle musiche inserite nella colonna sonora del film Solaris di Andrej Tarkowski. Quando lo vidi da bambino al Festival del Cinema di Teheran non ne compresi il contenuto, ma la bellezza delle sue immagini mi avvinse, così come la sua musica. Fu un’esperienza di beatitudine memorabile, seguita da un episodio che mi porto sempre dentro».
Può raccontarlo?
«È una delle cose molto piccole, eppure grandissime, di cui parlavo all’inizio. Al termine del film, insieme a mio fratello, andammo a bere una cioccolata calda per smaltire l’emozione, mentre a Teheran nevicava. Un manto bianco e gelido copriva la città, e ai paesaggi meravigliosi impressi dentro di noi da Solaris si mescolava quella bevanda dolce e bollente. Ci sono tutti i ricordi della mia Persia, nell’album Malinconia: accanto all’amore per i compositori a cui rendo omaggio, c’è il mio immergermi nel rimpianto del passato. Per esempio Rachmaninov, di cui nel disco suono l’Elegia in mi bemolle minore op. 3 n. 1 e il Preludio in sol maggiore op. 32 n. 5, sollecita in me la visione delle noci fresche che andavo a comprare di notte sulla piazza di Teheran, dove ci sono banchi di cibo sempre aperti».
In alcune musiche avverte maggiormente il senso dell’esilio?
«Rachmaninov contiene molto la malinconia degli esuli, così come Chopin, un combattente che lasciò il cuore nella sua Polonia. Di lui eseguo sei mazurche selezionate fra le 58 che compose nel breve arco della sua vita. Il ritmo di tre quarti è un tempo di danza trasformato prodigiosamente da Chopin in uno strumento d’espressione del legame con la patria, della nostalgia, dello spirito eroico e del dolore. “Sono cannoni sepolti sotto i fiori”, scrisse Robert Schumann a proposito delle mazurche chopiniane. Nel disco c’è pure la malinconia nordica di Sibelius, col vortice straziante della sua Valse triste. Scriabin fu un idealista malinconico: ricchissimo di pathos, il suo giovanile Studio op. 2 n. 1 è stato il cavallo di battaglia di Vladimir Horowitz, che lo eseguiva spesso come bis, anche in tarda età. Quanto a Ciaikovskij, sappiamo che si ammalò di malinconia nel lottare contro l’accettazione della propria omosessualità. Considero il suo Canto d’autunno, preso dal ciclo delle Stagioni, l’epitome del sentimento malinconico».
C’è anche un pezzo di Beethoven, nella sua lista.
«Non si sa se fu scritto veramente da Beethoven, comunque è molto grazioso. Adieu au piano, attribuitogli tradizionalmente, è un breve foglio d’album da salotto che venne pubblicato a Berlino nel 1838, undici anni dopo la morte di Beethoven. La didascalia segnala un valzer in fa maggiore, “Moderato con molta espressione - Glaube, Liebe, Hoffnung” (Fede, Amore, Speranza). È una pagina semplice, su cui la musicologia non ha mai dato un giudizio definitivo: manca l’autografo. Contiene un tema dolce, soave e gradevolissimo da ascoltare. Forse è un falso molto ben riuscito. In quest’epoca dominata dai fake, ho voluto introdurre un possibile fake nel mio viaggio di esplorazioni malinconiche».