Robinson, 4 aprile 2020
Biografia di Alberto Savinio
Alberto Savinio (1891-1952) è il più grande dei “minori”. Perché “minore”? Perché come scrittore è stato a lungo ignorato da storie e manuali letterari, e relegato frettolosamente in un capitoletto dedicato ai “surrealisti” (Bontempelli, Landolfi...), magari in una versione più “mediterranea”. (Breton volle inserirlo nel suo dizionario surrealista). Eppure è uno scrittore immenso. Artista totale: pittore – come il fratello maggiore de Chirico —, musicista, scenografo, scrittore, ha attraversato le avanguardie del secolo scorso con sovrana disinvoltura, senza mai aderire del tutto ai loro dogmi. La sua multiforme opera letteraria si compone di romanzi, racconti, pezzi brevi, autobiografie inventate, articoli... Ma al centro di tutto brilla la sua scrittura: visiva, nomadica, insofferente di classificazioni. Ha sfiorato ogni linguaggio del ’900, con la grazia di un dilettante geniale. Come ha scritto: «vivo in una perfetta condizione di felicità. E vivo così perché non do presa alla noia... passo di continuo da arte a arte». Dopo l’infanzia ateniese e l’adolescenza in Germania approda ventenne a Parigi, dove fa amicizia con Apollinaire e compone le prime musiche ( Les chants de la mi-mort): nelle serate musicali suona in piedi sfasciando i tasti (Jimi Hendrix?). Con la guerra viene in Italia, pubblica nel 1918 Hermafrodito, collabora alla Ronda. Negli anni ’30 comincia a dipingere e più in là tornerà a comporre. Scrive tantissimo sulla Stampa, poi su Omnibus e su altre riviste. Escono intanto Angelica o la notte di maggio (1927), Infanzia di Nivasio Dolcemare (1941), Narrate uomini la vosta storia (1942), Casa “La Vita” (1943), La nostra anima (1944), e solo postumi Maupassant e l’Altro e la splendida Nuova enciclopedia.
Savinio non delude mai: in ogni riga che scrive si respira una atmosfera di vertiginosa libertà. Nei racconti brevi può essere giocosamente sublime, ma continuo a preferire il Savinio come saggista puro. Invito ad una immersione nel corposo volume degli Scritti dispersi, 1943-1952 (Adelphi, che ha ripubblicato interamente la sua opera), dove una intelligenza mercuriale si sposa allo sguardo puntigliosamente moralistico. Rilegge ironicamente il mito antico, immettendolo nell’attualità, in una quotidianità degradata. Si distacca dal futurismo perché crede non nel futuro ma negli archetipi, e nell’eterno gioco del mondo, cangiante e proteiforme (le sue non sono “preofezie” ma “postfezie”!). Per definire la sua poetica (e visione del mondo) sono state suggerite formule ossimoriche, come ad esempio “umanesimo smarginato”. Forse la più calzante è “surrealismo civico”. Da una parte il riconoscimento della centralità dell’inconscio (suoi maestri Nietzsche e Freud), dell’onirico, del magico, dell’obliquo, del caso (non voleva correggere i refusi!). Dall’altra una avversione fisiologica al fascismo (nonostante qualche simpatia iniziale per il regime, che diffidava di lui), un oltranzismo etico-esistenziale, una naturale vocazione alla critica della cultura. Ma potremmo anche dire: un illuminista continuamente attratto dall’Altro, dalla follia e dall’irrazionale. Da lui discendono egualmente scrittori che pure sono agli antipodi, come Sciascia e Manganelli.
Spigolando qui e là, nel volume prima citato, mi limito a segnalare alcune perle, per dare solo una pallida immagine del suo stile intellettuale. Gli dei greci sono da preferire perché amano schiacciare un pisolino pomeridiano (nei templi si tira una tenda davanti alla porta), ogni tanto riposano, mentre gli altri dei son sempre desti: «E scampo non c’è». Per capire Proust occorre pensare che scriveva a letto: la sua scrittura distesa e fluviale è prodotta dalla posizione di decubito. Nel paradiso dantesco non si piange né si ride: «è con gli infernali che io sento comunità d’interessi e legami affettivi». «Vedere» annienta (si vuole possedere la cosa), «guardare» è invece ciò che definisce la poesia. Il cristianesimo è la religione della bontà, ma è una bontà-forza, «una bontà che ha l’energia della malvagità». Prima di addormentarsi, di entrare in uno stato di non attività, occorre leggere cose lontane dal presente: non abbiamo più i mezzi per neutralizzarne gli effetti. L’amore per il jazz: «la musica negra non comincia né finisce» non ha attacco, perché «è parte della vita».
Chi sono i “nemici” per Savinio? La Borghesia (con la sua pretesa di stabilità), il Totalitarismo, «l’idea di un ordine unico, di un unico principio, di una cagione e di un fine della vita», la volontà di spiegare il funzionamento del mondo (principale ostacolo alla intelligenza stessa del mondo!), l’ansia di riempire il vuoto, l’estetismo («dannunzianesimo e fascismo sono due fenomeni di vergogna»: abbelliscono le cose perché ci si vergogna di mostrarsi come si è). Mentre crede nell’individuo, in «colui che non si può dividere» (avverso al potere: in un’occasione dichiara la sua simpatia per gli anarchici), nella modernità (moderno è uno spirito «cosciente della propria autonomia mentale e che liberamente contempla intorno a sé il mondo sdivinizzato»), nella Europa (radicata nella antica Grecia, nel «senso liberalistico della vita»), nel Sud («riaccostarsi al Mezzogiorno vuol dire abbandonare lo spaventoso astratto e ritornare al suadente, al confortante concreto»), e ci invita ad accettare il fluire enigmatico della vita.
Nella Nuova enciclopedia troviamo una voce (“Hitler”) in cui Savinio ci riferisce – con entusiasmo – di una donna che nel 1943 vende bibite a Forte dei Marmi, e che ignora chi sia Hitler. Ignora l’esistenza di Hitler – chiosa Savinio – «per igiene». Lo scrittore voleva fondare una lega i cui soci si impegnassero a ignorare Mussolini, a non pronunciarne il nome, e si chiede: perché stupirsi del loro successo quando tutti «sono educati a quelle medesime idee di “grandezza”» di cui tali dittatori sono la naturale espressione? Bisogna abolire le idee che rendono “desiderati” Alessandro, Cesare, Napoleone, Mussolini e Hitler: «si tratta insomma di un radicale mutamento del concetto di grandezza» (in quegli anni Simone Weil perviene alle stesse conclusioni). Ed è singolare come un attacco così frontale alle radici più perverse della nostra civiltà – priva del senso del limite e ipnotizzata dalla forza – ci venga nel secolo scorso non da un leader politico progressista, né da un pensoso filosofo morale o da uno scrittore seriosamente “impegnato”, ma da uno autore “metafisico” e scanzonato, il cui demone era la divagazione.