Tuttolibri, 4 aprile 2020
Caro Voltaire, avevi ragione
Il Candido di Voltaire fu scritto tra luglio e dicembre del 1758 e pubblicato nel gennaio del 1759 contemporaneamente a Ginevra, Parigi e Amsterdam. Quello stesso anno apparvero non meno di tre differenti traduzioni inglesi, seguite a breve distanza dalla prima versione di Tobias Smollett, che oggigiorno è la più letta. Anche gli inglesi riconoscevano Voltaire come il più famoso intellettuale d’Europa, e il suo Candido come un esempio di prim’ordine di letteratura d’informazione. Questo racconto filosofico può essere inteso come un attacco all’ottimismo leibniziano – e in senso più lato a tutti i sistemi di pensiero e credenze preconfezionati –, una satira contro la chiesa e il clero, e una riflessione pessimistica sulla natura umana e sulla questione del libero arbitrio. Ma non è una favola dall’ambientazione immaginaria o simbolica: al contrario, si tratta di un resoconto sullo stato del mondo, situato intenzionalmente là dove accadono o sono appena accaduti gli avvenimenti più significativi dell’epoca.
Così, per esempio, l’ingenuo Candido e il suo maestro-filosofo Pangloss vengono opportunamente sorpresi dal terremoto di Lisbona, un evento di una tale portata distruttiva (trentamila morti) e di un tale contraccolpo filosofico e teologico da far sembrare l’11 settembre un episodio minore. La catastrofe si era abbattuta soltanto nel novembre del 1755, e la risposta da parte dell’Inquisizione, un autodafé per scongiurare altre scosse (la caccia all’eretico rastrella anche Candido e Pangloss), ebbe luogo nel giugno dell’anno successivo. Più recente ancora è l’episodio a cui assiste Candido a Portsmouth: l’ammiraglio Byng viene giustiziato a causa della codardia manifestata contro il nemico francese nella battaglia di Minorca; l’esecuzione avvenne il 14 marzo 1757, solamente un anno prima che Voltaire cominciasse la stesura del suo romanzo. Un altro argomento dibattuto a quei tempi era la questione delle missioni gesuite in Paraguay: se i preti, esercitando l’autorità civile oltre che religiosa, avessero creato un paradiso terrestre o al contrario un’altra ben più terrena e misera dittatura.
Nel Candido c’è anche spazio per replicare ai numerosi attacchi diffamatori indirizzati allo stesso Voltaire a opera di sciocchi, furfanti e critici di varia risma. Ai suoi primi lettori, dunque, con il suo mordente e la sua immediatezza, il romanzo sarà sembrato una sorta di fumetto politico-filosofico. Tale effetto viene enfatizzato dalla cifra stilistica del romanzo, un picaresco satirico portato all’estremo. A livello di trama non è – né intende essere – un romanzo realistico, la narrazione procede per mezzo di coincidenze incredibili e macroscopici rovesci di fortuna. Se un’argomentazione richiede nuovamente la loro presenza, in maniera alquanto inverosimile personaggi dati per morti rispuntano vivi e vegeti qualche pagina dopo. In questo genere, i protagonisti sono soggetti ancor più del solito al capriccio del romanziere-burattinaio, il quale richiede loro di trovarsi qui per dimostrare una certa idea, là per dimostrarne un’altra. Hanno sì delle opinioni, e manifestano reazioni filosofiche o pratiche alle fortune e sfortune della vita, ma possiedono un’interiorità appena abbozzata. Candido, il più innocente tra gli innocenti, è una sorta di pellegrino che, come risultato del catalogo di calamità inflittegli dall’autore, in qualche modo sperimenta un’evoluzione; ma coloro che lo circondano, da Pangloss l’illuso a Martino il disilluso, per arrivare all’ostinatamente prosaico Cacambo, rimangono al punto in cui si trovavano la prima volta che abbiamo fatto la loro conoscenza. Pangloss, nonostante le incessanti confutazioni della sua visione leibniziana sull’«armonia prestabilita» del mondo, dimostra un’ottusa ostinazione quando alla fine del romanzo afferma: «Resto sempre della mia prima idea perché in fin dei conti sono un filosofo, non mi conviene contraddirmi».
Sebbene numerosi riferimenti alla contemporaneità abbiano perso consistenza e siano decaduti nel corso del tempo, il romanzo in sé rimane più vivido e pertinente che mai. Molti di noi si sono affacciati a questo mondo innocenti e speranzosi quanto Candido, e la maggior parte di noi, chi prima chi dopo, ha scoperto che non c’è nessuna armonia prestabilita nella vita. Le stesse religioni ufficiali dispensano le medesime panacee di un quarto di millennio fa, e nel frattempo il clero continua a dare scandalo. Se Voltaire ha uomini di chiesa che frequentano prostitute e si comportano come ruffiani, il nostro mondo ha le sue suore sadiche e i suoi preti pedofili; se Voltaire ha il fratello di Cunegonda condannato alla galera per aver fatto il bagno nudo con un giovane turco, noi abbiamo imam che incitano a uccidere infedeli e omosessuali. E se inevitabilmente la satira di Voltaire sulla religione la fa da padrona, la sua analisi degli altri poteri che controllano il mondo – denaro, rango, violenza e sesso – funziona altrettanto bene.
Alla fine delle loro avventure in Sudamerica, dopo aver visto con i propri occhi le missioni gesuite ed essersi imbattuti nella società perfetta di Eldorado, Candido e Cacambo si dirigono verso la città di Surinam. Sul ciglio della strada vedono «un negro steso per terra con indosso soltanto la metà del suo vestito, vale a dire un paio di braghe di tela azzurra. Al pover’uomo mancavano la gamba sinistra e la mano destra». Gli chiedono cosa sia successo. «Quando lavoriamo negli zuccherifici», replica l’uomo, «e la macina ci afferra un dito, ci tagliano la mano; quando tentiamo di fuggire ci tagliano una gamba: a me sono capitati entrambi i casi. È a questo prezzo che mangiate zucchero in Europa.» Lo sfruttamento economico dei paesi più poveri da parte di quelli sviluppati continua ancora oggi, e Voltaire ne avrebbe trovato un’espressione particolarmente emblematica in certi oligarchi russi, banchieri inglesi e guerrafondai americani.
Ma non continueremmo a leggere Voltaire solo perché aveva ragione allora, e ne avrebbe ugualmente ai giorni nostri. Come mostra la storia del lavoratore di zucchero, è il modo in cui Voltaire espone le sue ragioni a renderlo vivo ancora oggi.
Proprio come è probabile che il famoso riassunto della guerra delle Falkland coniato da Borges («due calvi che litigano per un pettine») durerà più a lungo nella memoria collettiva dei dettagli dell’evento stesso, così le quattro parole cruciali usate da Voltaire per caratterizzare la morte dell’ammiraglio sopravvivranno meglio dei meriti e demeriti intorno alla vicenda.
Voltaire commenta l’episodio con tono tagliente perché durante il suo esilio inglese (1726-28) aveva avuto modo di conoscere l’allora giovane capitano Byng, e, trent’anni dopo, nonostante i rispettivi paesi fossero in guerra, si era esposto (ottenendo addirittura un affidavit dall’ammiraglio francese) per cercare di salvarlo dall’esecuzione. E quindi vediamo Candido che, stanco della doppiezza e della corruzione dei francesi, con un vascello olandese da Dieppe è diretto a Portsmouth. «Voi conoscete l’Inghilterra», dice interrogando il suo compagno di viaggio Martino, «i suoi abitanti sono matti come in Francia?» «È un’altra specie di pazzia», risponde l’altro, citando a mo’ di esempio il fatto che i due paesi si azzuffino in Canada «per qualche arpento di neve». Quando la loro nave attracca al porto, sul ponte di un altro vascello scorgono una figura in ginocchio, bendata. Candido chiede cosa stia succedendo. Gli dicono che un ammiraglio inglese sta per essere giustiziato «perché non ha fatto ammazzare abbastanza persone». La Corte ha deliberato che, nel combattimento contro l’ammiraglio francese, «non gli fosse andato abbastanza vicino». «Ma», argomenta Candido con la logica dell’ingenuità, «l’ammiraglio francese era lontano dall’ammiraglio inglese quanto questi da quello.» «È incontestabile», gli replicano, «ma in questo paese è buona cosa uccidere di tanto in tanto un ammiraglio pour encourager les autres.» Ho lasciato quest’ultima frase in francese perché fa ormai parte del nostro glossario nazionale. E non senza una certa ironia volteriana, il suo primo utilizzo documentato in un contesto inglese si trova in un dispaccio del grande e rinomato nemico della Francia, il duca di Wellington.
La storia dell’altra frase universalmente nota che sta a chiusura del romanzo – il faut cultiver notre jardin – è ancora più peculiare. Secondo l’Oxford English Dictionary, non fu introdotta nell’inglese scritto fino ai primi anni trenta, – in America per mezzo di Oliver Wendell Holmes e in Inghilterra grazie a Lytton Strachey. Ma una lunga tradizione non documentata del suo uso e abuso nella lingua orale può essere dedotta dall’intenzione proclamata a gran voce da parte di Strachey di curare «i degenerati discendenti di Candido», i quali hanno inteso la frase conclusiva del romanzo nel senso di «guardare al proprio interesse». Che una raccomandazione filosofica al quietismo dell’orticoltura possa essere interpretata come una giustificazione all’egoismo e all’avidità non avrebbe necessariamente sorpreso Voltaire. Nel centenario della sua morte, le commemorazioni furono sponsorizzate dalla Menier, una famosa azienda produttrice di cioccolato. Flaubert, sempre vigile sulla corruzione dell’arte da parte del commercio, sottolineò in una lettera: «Ecco che l’ironia non abbandona mai il Grande Uomo! Elogi e insulti continuano proprio come se egli fosse ancora vivo». Alla satira comunemente si contesta il suo essere "negativa", volta al mero discredito altrui senza proporre un valido sistema alternativo. Possiamo controbattere in due modi. Il primo invita a guardare a quei personaggi del Candido che in varie occasioni soccorrono e proteggono gli innocenti: Giacomo l’anabattista, Martino il sociniano, il coriaceo servo Cacambo, e la vecchia (che fu figlia di un papa) al servizio di Cunegonda. I primi due appartengono a sette eretiche minori (Martino crede che Dio si sia dato alla macchia), gli altri due non hanno altro interesse che riuscire a campare giorno per giorno. Insieme, questi quattro personaggi incarnano le virtù di operosità, carità, lealtà, morigeratezza e spirito pratico. Tali virtù non sempre possono proteggere dal fanatismo del mondo, ma offrono le migliori possibilità di raggiungere ciò per cui Voltaire e gli illuministi francesi dibatterono e si batterono: libertà, tolleranza, giustizia e verità.
La seconda risposta che possiamo darci è che la satira, per quanto vera possa sembrare, è pur sempre tanto utopica – e per questo stesso motivo irrilevante – quanto l’Eldorado. Alla fine del Candido il mondo non si è ravveduto, e coltivare il proprio orticello non protegge nessuno da un esercito di bulgari. La satira non ha niente a che vedere con il "trovare una soluzione", non nasce da una raffinata strategia per gestire in maniera puntuale la riabilitazione morale dell’umanità; piuttosto, è l’indispensabile espressione di una collera morale. Gli autori satirici sono per natura pessimisti, sanno che il mondo cambia troppo lentamente. Se la satira funzionasse – se l’ipocrita e il bugiardo, castigati pubblicamente, facessero ammenda –, la satira non avrebbe più ragion d’essere. «Ma a quale scopo è stato dunque fatto questo mondo?» chiede Candido. «Per farci arrabbiare» risponde Martino. La satira è una reazione – e uno sfogo – a questa follia cosmica. Quando Candido e Cacambo incappano nell’Eldorado, inizialmente sono meravigliati da ciò che vi trovano, dall’oro e i diamanti sparsi tra la polvere delle strade alla cortesia e alla generosità della popolazione, ma successivamente prendono nota di cosa non vi trovano: questo luogo perfetto è sprovvisto di preti cospiratori o monaci distruttori, e niente tribunali, parlamenti o prigioni. Voltaire non lo dice, ma possiamo star certi che nemmeno la satira esiste, laggiù. Non avrebbe assolutamente senso, come la blasfemia contro un dio morto. Tuttavia noi siamo ben lontani dal vivere in un Eldorado, e avremo bisogno del Candido ancora per parecchi secoli a venire.