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 2020  aprile 04 Sabato calendario

Intervista a allo scrittore ceco Jáchym Topol

Una bottiglia incendiaria finisce su una tenda, un’altra cade lì vicino, la gente comincia a raccogliere in fretta e furia le sue cose: «Vogliono mandarci via». Una banda di ragazzini è alla testa di un corteo rabbioso, megere inviperite e omaccioni imbronciati. Li guida una persona tutta vestita di nero: Leave means leave! Andatevene!
Non è il confine greco-turco sotto pressione dei migranti siriani in fuga dalla guerra, ma Bristol, provincia ovest dell’Inghilterra. Scene di questo tipo se ne sono viste parecchie negli ultimi anni, contro i migranti dell’est Europa, polacchi, soprattutto. Ed è con questa immagine che si apre il romanzo di Jáchym Topol.
Lei ha vissuto personalmente una situazione così?
«Ho lavorato molti anni come reporter nel settimanale ceco Respekt, e mi sono confrontato spesso con i migranti. Ho persino scritto un reportage sui primissimi campi di rifugiati in Repubblica Ceca, dopo la caduta della cortina di ferro del 1989. Ne scrivevo con molto orgoglio, perché fino ad allora eravamo un paese da cui si fuggiva, mentre all’improvviso eravamo diventati un luogo di rifugio per povera gente meno libera di noi, come a quel tempo erano i romeni o i curdi». 
E ora com’è la situazione?
«È completamente cambiata. Il nostro presidente della Repubblica, Miloš Zeman, è un alcolizzato, e lo scrivo con una certa comprensione, dal momento in cui io stesso ho a lungo consumato alcol in modo alquanto sfrenato, ma è un sostenitore dei totalitarismi russo e cinese, un’enorme vergogna per la Repubblica Ceca, ed è stato eletto dai più allocchi, proprio in virtù della promessa di "proteggere" il nostro stato dai profughi».
E quindi siete tornati ad essere un paese da cui si scappa? 
«Anche i profughi che avevamo intenzione di accogliere e sostenere, dopo un breve soggiorno se ne sono fuggiti in Germania che è una specie di aspirapolvere. Centinaia di migliaia di persone provenienti dall’Africa, o dal mondo arabo, o magari dalla Turchia, hanno parenti che vivono lì e il loro scopo è raggiungerli, nessuno ha come obiettivo di rimanere nella Repubblica Ceca. Noi siamo uno stato piccolo, industriale, e abbastanza ricco e sicuro, la popolazione è omogenea, composta da bianchi. Vedremo se siamo destinati a rimanere una sorta di museo all’aperto». 
Trent’anni fa la caduta del muro di Berlino e per voi cechi la "rivoluzione di velluto". Che cosa vi aspettavate?
«È tipica dei cechi una certa attitudine alla comodità, la maggior parte ha uno stile di vita piuttosto agiato, per cui non abbiamo assistito a esodi di massa come sono avvenuti dalla Polonia, o dalla Lituania. La Repubblica ceca è una sorta di tranquilla Hobbiville abitata da hobbit pigri, fieri del loro raccolto, del loro tabacco, della loro birra, e si arrabbiano terribilmente se qualcuno prova anche solo a toccare le loro conquiste. I cechi non ci tengono troppo all’eroismo, o ad affrontare eroiche spedizioni nel mondo. I giovani ovviamente lasciano il paese quando possono e avendo due figlie studentesse, sono felice che molti studenti poi tornino a casa». 
Non era così, però, durante il comunismo.
«Secondo me nemmeno allora lo stato ceco si è allontanato molto dall’occidente. Lo stalinismo degli anni Cinquanta è stato terribile, eravamo semplicemente un satellite dell’Unione Sovietica, con tanto di esecuzioni capitali e campi di concentramento. Gli anni Settanta, di cui ben mi ricordo, ovvero il periodo della Charta 77 e dei dissidenti di cui Vaclav Havel, futuro presidente della Repubblica, fu la voce maggiore, sono stati già molto più morbidi e stimolanti, nonostante tutti gli arresti, le percosse e la chiusura delle frontiere. E dopo la caduta del Comunismo abbiamo potuto riallacciarci a una tradizione democratica. Cosa che per esempio in Ucraina o in Bielorussia non è stato possibile. C’è un comune razzismo contro i Rom, e c’è tanta stupidità, ve l’assicuro, ma in Repubblica Ceca si vive abbastanza bene». 
Quali sono i caratteri che vi distinguono rispetto agli slovacchi? O rispetto ai polacchi o agli ungheresi che nel romanzo lei definisce come i più fantasiosi?
«Tra i cechi, a differenza dei polacchi, degli slovacchi o degli ungheresi, i nazionalisti militanti sono davvero un minimo. Soprattutto, a differenza dei cattolici polacchi e slovacchi, i cechi sono per la maggior parte atei, pragmatici e poco eroici. I cechi sognano poco! Preferiscono sparlare un po’ di tutto e si burlano di tutti e in qualsiasi momento, hanno il grande dono dell’ironia e fortunatamente anche quello dell’autoironia. C’è una grande differenza con i fieri polacchi, che sfociano spesso nel nazionalismo, o gli ungheresi. E la verità è che non tutti gli slovacchi e gli ungheresi si considerano a vicenda esseri umani… non sto scherzando! Sul confine la situazione è molto tesa».
I protagonisti del suo romanzo sono attori, recitano Shakespeare, si rivendicano orgogliosamente "boemi", protestano con i francesi che li definiscono "zingari", si lamentano con gli inglesi che li scambiano per "polacchi".
«È il complesso dei più piccoli, dei poco conosciuti… E invece ricordo bene i tempi in cui venire dal paese di Václav Havel sembrava qualcosa di meraviglioso e i cecoslovacchi erano il fior fiore dell’Est, anche grazie alla magica città di Praga, la città di Kafka, e del Golem, e di Kundera , non come la città della birra e delle prostitute a buon mercato dei tempi odierni». 
E quali sono questi tempi odierni?
«È il trend della globalizzazione del turismo e dei consumi, uno schifo che mi fa ribrezzo e disprezzo, anche se lo sfrutto e ne faccio uso. Ma me ne frego! A recitare Shakespeare siamo bravi quanto gli altri, se non migliori, dunque siamo senza dubbio un popolo colto… molto probabilmente più degli italiani, che in fondo hanno ucciso Gesù Cristo…».
Gli italiani? Perché dice così?
«Sto usando il linguaggio ironico del mio romanzo centroeuropeo, esagero, parlo la lingua dei commedianti e dei nomadi, che per farsi valere non possono fare a meno di mostrarsi spavaldi e sfrontati – e ai cechi questa caratteristica non manca, primo io fra tutti». 
Nel romanzo si accenna anche alla guerra nell’est dell’Ucraina. Qual è la posta in gioco reale e simbolica, per voi cresciuti in un satellite dell’Urss?
«Io sono nato letteralmente in seno all’underground anticomunista. Mio padre e mio fratello hanno firmato la Charta 77. La prima volta che sono stato rinchiuso in prigione e malmenato dagli agenti segreti avevo diciassette anni. Dunque sui comunisti non mi sono mai fatto troppe illusioni. Anche senza comunismo però i russi continuano purtroppo a perseguire la loro tradizione di violenza. L’aggressione contro l’Ucraina è solo la logica continuazione della politica russa, prima comunista e prima ancora zarista imperialista. Di tutti gli slavi i russi sono i più malati di tutti, non possono fare a meno di combattere, invadere, perseguitare, pontificare, di tanto in tanto anche uccidere, purtroppo». 
Pensavate questo anche al crollo dell’Urss?
«Ci sono intellettuali più importanti di me che quando è caduta la cortina di ferro ingenuamente hanno esultato! Eravamo convintissimi che i russi, una volta liberatisi del comunismo, si sarebbero improvvisamente trasformati in un popolo democratico, che saremmo diventati amici, rallegrandoci e arricchendoci insieme. Purtroppo questo non è successo, i russi sono malati di brama di potere. Quel terribile complesso della caduta dell’impero li ha resi dei cocciuti provocatori, purtroppo nemici dell’Europa unita. In questo conflitto gli ucraini hanno subito un attacco e io tengo per loro fin dall’inizio e gli auguro il meglio possibile».
Putin presunto difensore dei valori tradizionali: dio, patria, famiglia… La rinata autocrazia russa è diventata un modello politico per le destre sovraniste, per l’Ungheria di Orbán, ma anche per la repubblica Ceca. Non le sembra un cortocircuito?
«Che Putin e i suoi ufficiali siano difensori di valori, è semplicemente ridicolo. In Repubblica Ceca c’è giusto qualche putinista pagato, ma la sfiducia nei confronti della Russia è enorme, è una tradizione. Per studiare e lavorare la gente si trasferisce all’Ovest, mai all’Est. E da noi trovano lavoro decine di migliaia di ucraini di altri popoli dell’est, mai il contrario. In Repubblica ceca i tribunali sono autonomi, c’è libertà di parola, la stampa è indipendente. Sono migliaia le manifestazioni contro il premier Babis, accusato di corruzione e frode, e contro il presidente pro Russia Zeman, e non sono violente, non vengono soffocate, si tratta di eventi con una grande partecipazione di cittadini liberi e allegri. È necessario continuare a lottare e stare sempre all’erta, ma non vedo al momento una forza in grado di sovvertire la democrazia». —
[Traduzione dal ceco di Laura Angeloni]