La Stampa, 4 aprile 2020
Il Mezzogiorno teme la fame da sempre
Dalla finestra vedo palazzi, finestre aperte, panni stesi al sole, e sento i cani abbaiare, quelli dei miei vicini. Stiamo a casa, tutti quanti. Così da settimane. Protetti tra le nostre certezze: divani, tv, scrivanie, computer, tablet, cuffie per l’ascolto, radio e giornali. La spesa ogni tanto, per non rischiare. Chiamiamo al numero del negozio di alimentari la cui titolare ci conosce da tempo, o facciamo la spesa online, e dopo qualche ora le buste con i viveri sono dietro la porta. Non tutti però. Non sempre. Fare la spesa è un lusso per chi ha il portafogli ben munito, e ha denaro sul conto corrente per pagare con carta di credito. Per gli altri ci saranno i buoni spesa. Soprattutto al sud, quel sud che teme la fame da sempre. Lavoretti in nero, quelli che lo Stato punisce quando vengono scoperti, ed espedienti d’ogni sorta per portare a casa il pane. Ci siamo abituati a questo stato di cose.
Sono (orgogliosamente) siciliana; ho ben chiaro che davanti all’impossibilità di trovare un lavoro la vita te la devi inventare in qualche modo. Non è scaltrezza che si scambia con dignità, ma bisogno di sopperire alle mancanze di una politica deviata da troppa avidità. Ed è un sud che ora, nell’emergenza, ancora di più mostra le falle di un disastroso Welfare locale. Ne parlano i libri, i film e persino le canzoni e le filastrocche regionali. Puglia, Calabria, Campania, Molise, figlie sfortunate di una geografia sociale soffocata da montagne di bugie. Nel 1945, nella Collana «Saggi» di Einaudi, fu pubblicato il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli. La trama, conosciuta dai più, si può semplificare raccontando di un uomo (lo stesso Levi) confinato in Lucania per motivi politici, tra il 1935 e il 1936. Egli, giunto nel paesino di Aliano, che nel libro prende il nome di Gagliano, deve confrontarsi con la profonda diversità della campagna lucana dal mondo moderno e dallo sviluppo culturale e industriale della società del nord dal quale lui arriva. Si tratta di un confronto tra un giovane intellettuale, scrittore e pittore, esponente della buona borghesia torinese, coinvolto nella lotta al fascismo e vittima delle persecuzione del regime, con la realtà contadina del paese che lo accoglie. Ambiente fin troppo rurale e legato ancora a tradizioni arcaiche, succube peraltro di una borghesia parassitaria, che vive sulle spalle di gran parte della popolazione che vessa quotidianamente. E questi ultimi, poveri cristi privi di strumenti culturali ed economici, non hanno mezzi per ribellarsi e riscattare il proprio futuro e quello dei figli. Fiumi di umanità che da una parte all’altra del sud, passando per la famiglia Toscano de I Malavoglia, capolavoro verista di Giovanni Verga, a Ciàula scopre la luna di Pirandello, al sempre attuale I Viceré di De Roberto, grida il suo dissenso. Il popolo sopraffatto, vessato, umiliato, beffato, nei suoi più semplici bisogni a un certo punto fa sentire la sua voce.
Per questi motivi, tornando a Levi e al suo Cristo si è fermato ad Eboli non possiamo non accentuarne quell’attenta analisi storico-politica sul Meridione e sulle ragioni della sua cronica patologia endogena: la mancanza di autonomia. Significativa infatti è la conclusione del romanzo. Il protagonista (Levi), sulla strada del ritorno dal confino, grazie all’amnistia per il trionfo nella guerra d’Etiopia, riflette sulla sua esperienza come uomo e come cittadino: «Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno. Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico, parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria industrializzazione, di colonizzazione interna, o si riferivano ai vecchi programmi socialisti, "rifare l’Italia". Altri non vi vedevano che una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitù che una democrazia liberale avrebbe un po’ per volta eliminato. Altri sentenziavano non essere altro, il problema meridionale, che un caso particolare della oppressione capitalistica, che la dittatura del proletariato avrebbe senz’altro risolto. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza, e parlavano del sud come di un peso morto, per l’Italia del Nord, e studiavano le provvidenze per ovviare, dall’alto, a questo doloroso dato di fatto. Per tutti, lo Stato avrebbe potuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico, e provvidenziale. Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato».
La stessa fame e disperazione di famiglie moderne del sud che in questi giorni, per mezzo di servizi televisivi e articoli di giornali, viene evidenziata un po’ ovunque. «Abbiamo fame, dateci qualcosa da mangiare, chiedono in numero sempre maggiore». Lo riporta accorata Gabriella Lipani, direttore dell’Associazione Banco Alimentare, che non nasconde la sua preoccupazione per evitare la denuncia grave.
La Onlus che dirige, assieme a Caritas diocesana e Banco delle Opere di carità, chiamate dal Comune di Palermo per fare fronte a quella che è ormai una vera e propria emergenza - parallela a quella sanitaria - sottolinea la necessità di fornire generi alimentari ai più bisognosi. Una platea di famiglie disperate, i cui componenti sono per lo più disoccupati o lavoratori in nero, che non sono più in grado di fare la spesa. E la situazione rischia di degenerare, come dimostra il tentativo di saccheggio a un supermercato avvenuto qualche giorno fa proprio a Palermo, da parte di un gruppo di persone che ha riempito i carrelli e ha tentato di fuggire senza pagare.
Il Comune, attraverso le circoscrizioni e i servizi sociali territoriali, ha attivato il sistema di assistenza alimentare. Una bomba a orologeria, come quelle 60 famiglie dello Zen, o altre a Bari, Cosenza, Reggio Calabria, Catania, Napoli, Caserta. Non a caso i servizi sociali di queste città del sud, mettono in guardia il Governo per probabili atti di insurrezione verso supermercati, centri commerciali e banche. E qual è la differenza con la rabbia e il livore del popolo che gridava vendetta è chiedeva pane nei secoli passati?
Un altro grande autore ci viene incontro per capire l’anima che arde sotto la brace delle insoddisfazioni popolari, ed è ancora Sicilia. Nel 1958 all’interno della collana «Gettoni» di Vittorini, Sciascia compare per la prima volta come narratore puro. Si cimenta in uno sforzo narrativo che sovverte le regole del canto degli oppressi, raccontando di personaggi totalmente diversi da quelli de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Gli eroi de Gli zii di Sicilia sono contadini, odiano i nobili, detestano la loro arroganza, e immaginano pregustandola una vita diversa, migliorata dalla loro volontà. Ed è proprio alla volontà e al libero raziocinio che affidano la speranza del loro avvenire, riscattandosi da tutte le umiliazioni, contro ogni aristocratica visione di una Sicilia che vuole rimanere ancorata ostinatamente al passato. Con voce ferma Sciascia rivela i suoi tratti essenziali: l’attenzione alle minime cose, il confronto perenne fra la sua terra e il mondo, la caparbietà nel coglierne i paradossi.
Ne Il quarantotto, uno dei tre racconti che compongono la raccolta (la quarta verrà anni dopo), ambientato tra il 1847 e il 1860, si narra l’epoca europea dei grandi cambiamenti di potere e delle grandi rivoluzioni. Sciascia qui non si lascia ammaliare dal contesto storico, piuttosto si concentra sull’atteggiamento delle varie classi sociali di fronte al cambiamento di potere, ai servi dei signori, a quelli che adulano i più forti, agli ipocriti, ma anche su chi non si lascia corrompere. Quel 1848 fu un anno determinante per l’Italia, e lo fu anche per altri Paesi europei. Un anno di battaglie, di tradimenti e di metamorfosi strabilianti, seppure colmo di miserie e approfittatori. Insomma, fu un vero e proprio Quarantotto, e il titolo non fu scelto a caso. Può bastare per spiegare la storia della nostra atavica paura della fame? Se vieni in Sicilia, la prima domanda che riceverai da parte di chi ti ospiterà, sarà questa: Manciàsti? Il cibo è l’essenza del bene. Per noi in assoluto, ma poi ripensandoci lo è in tutto il mondo. Sentivo oggi in televisione che in seguito all’emergenza per il coronavirus, molte famiglie della California sono in apprensione per la chiusura delle scuole, in quanto molti genitori contano sul pasto scolastico per far mangiare i propri figli. La fame è fame in ogni parte dell’universo, e nelle fasi critiche della storia ritorna più che mai potente l’assillo ancestrale di non trovare cibo per sfamarci. Sì, non è solo al sud che fa paura, solo che da noi questo terribile spettro ha avuto bravi cantori.