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 2020  aprile 03 Venerdì calendario

I farmaci prodigiosi dei nostri antenati

«La più potente e invincibile (…) arma che usar possino li medici contra ogni veleno totale (…) insanabile, horrendo, pestifero». Ecco che cosa avrebbe suggerito contro il coronavirus lo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi verso la fine del Cinquecento: la Theriaca. Scrisse infatti in un manoscritto, conservato a Bologna e da anni al centro degli studi di Barbara Di Gennaro Splendore, dell’Università di Yale, che grazie all’impiego della carne di vipera nel miracoloso medicamento «siccome la calamita tira il ferro… così la vipera in questa tanto desiderata Theriaca tira a se con gran vehemenza et prestezza ogni et qualunque veleno radicato in qual minera si voglia del corpo…». 
Sono millenni che l’uomo cerca qualcosa di prodigioso in grado di combattere i mali che via via si abbattono sulle popolazioni. Da molto prima che ciarlatani, spacciatori di unguenti 4.0 e untori millennials infettassero oggi il pianeta con fake news su farmaci giapponesi dannosi ai feti, sulle proprietà immaginifiche della vitamina C, sui gargarismi con la candeggina, sulle pozioni fai-da-te… Stupidari che richiamano gli anni sciagurati di Manto Tshabalala-Msimang, la ministra della Salute del Sudafrica che, al fianco del presidente Thabo Mbeki, giurava che contro l’Aids, più che i farmaci antivirali, funzionavano «cibi come aglio, limone, patate africane e barbabietola». 
Ed ecco, andando indietro nel tempo, la «panacea universale» che, spiega la Treccani, fu la «denominazione assegnata dagli alchimisti al chermes, minerale ritenuto capace, oltre che di guarire ogni male, anche di prolungare indefinitamente la vita». E l’opobàlsamo, l’olio ricavato dalla resina di un arbusto, chiamato appunto Balsamo, che pare crescesse solo nell’antico Egitto. E di cui avrebbe scritto per primo Dioscoride Pedanio, un botanico e medico greco vissuto a Roma ai tempi di Nerone. Una storia oscura e velata anche dal mistero della scomparsa (peraltro contestata) della pianta le cui virtù sarebbero state «riconosciute» secoli e secoli dopo in un altro arbusto trovato sorprendentemente in America. Vero? Falso? Mah… 
Fatto è, scrive nell’articolo  Il grande business della «Teriaca veneziana» Nelli-Elena Vanzan Marchini, che «quando Pompeo conquistò il Ponto, pare abbia trovato in uno scrigno la ricetta scritta di proprio pugno da Mitridate che venne poi utilizzata dai medici romani. Un secolo dopo Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, la modificò sostituendo la carne di Scincus, rettile dell’Arabia e del Nord Africa di difficile reperimento, con quella di vipera e portò i componenti al numero di 64: nasceva così la teriaca come farmaco che avrebbe avuto la fama di panacea universale. Tra i suoi numerosi elementi vi erano: la rosa, il giaggiolo, la cannella, la mirra, lo zenzero, lo zafferano, il dittamo, il pepe nero, la valeriana, la terra di Lemno, il vino vecchio, il miele, l’oppio… E ovviamente la carne di vipera». Se possibile dei Colli Euganei. La più pregiata e difficile da trovare se è vero che nei momenti di punta a Venezia «il fabbisogno mensile di ciascuna spezieria si aggirava intorno alle 800 vipere che venivano decapitate, pulite dalle interiora, scuoiate e bollite…». 
Ma servivano poi, quelle pastiglie? I «teriacanti» della Serenissima rispondevano con una filastrocca: «Batti, batti, pesta, pesta/ la Teriaca qui si fa./ più d’un morbo che molesta/ per tal farmaco sen va». E lo stesso Aldrovandi assicurava che «felice dir si può quella città che (ne possiede) di questi pericolosi tempi sospetti di quella orribile e spaventosa peste che migliaia di uomini solo in un momento di tempo ammazza».  
Scriveva anzi, con parole attualissime, che «l’imperatore, il re di Francia, di Spagna e tanti e tanti altri principi spendono milioni di ducati in tante guerre che loro fanno, con la morte di tante migliaia di uomini et con tanta distruzione di castelli e città», ma meglio avrebbero fatto a impegnarsi nell’impresa «di riformare la farmaceutica»: «Son certissimo che conseguiranno uno scopo et fine utilissimo… et con poca spesa». 
La peste. Quello era l’incubo, ricorda Chiara Beatrice Vicentini, docente di Storia della farmacia e del farmaco all’Università di Ferrara e autrice del saggio  Ricette contro la Peste per Duchi e Duchesse, dove cita una formula presa dal Tractato contra la peste del 1522 scritto dal medico Giovanni Manardi: «Togli sangue di anatra maschio & femmina/ di ocha/ di capreto/ tutti sechi seme di Ruta saluatica di finochio/ di comino/ di anetho/ di napi saluatico ana tre drachme Gentiana trifolio/ squinantho/ incenso/ rose/ drachme quatro pepe biancho pepe longo/ costo valeriana aneso…» O un’altra ricetta dal Recetario de Galieno Optimo e probato a tutte le infirmità che achadeno a Homini et a Done tradotto nel 1514 a Venezia da Zuane Saracino: «Mira, Zafrano, Bolarminio, Carobe, Coralli rossi, Mirabolani emblicorum e Aloe. E fane pillole con malvasia o vino simile e nel tempo molto caldo fale con aloe lavato e negli altri tempi con aloe non lavato»… 
Ma come dimenticare i rimedi tentati, con angoscia crescente, contro la sifilide? A partire dal trattamento, da parte dell’istrionico Paracelso (quello che si inventò l’Homunculus coltivato in una ampolla sepolta nello sterco di cavallo), a base di mercurio? «Oltre che sotto forma di unguento (mescolato con grasso di maiale, e, in seguito, con zolfo, mirra, incenso)», spiega nel libro L’altra faccia di Venere Eugenia Tognotti, «il mercurio veniva usato per “fumigazioni”, bruciando un composto del metallo, in genere il cinabro, in un ambiente chiuso, nel quale il malato veniva rinchiuso». Come gli speciali recipienti chiamati «botti di Modica»: «Prima di iniziare la cura il malato era tenuto a dieta, purgato, salassato, riempito di tisane e di clisteri di ogni specie. Veniva quindi chiuso in un locale surriscaldato. Seguivano ancora salassi e purghe. Il trattamento non era interrotto neppure in caso di fenomeni d’intossicazione». 
Era un inferno, per i poveretti. «Pareva che li cani li havessero mangiato dentro alla bocca ogni cosa», avrebbe ricordato un celebre poeta burlesco, Antonio Cammelli, detto il Pistoia. «Mi lassò tanto male alla bocca che mi durò dì 36, che appena poteva magnare lo pane cotto…», avrebbe scritto nei suoi diari un canonico di Orvieto, Ser Tommaso di Silvestro. E insomma i devastanti effetti collaterali della cura a base di mercurio, scrive Eugenia Tognotti, furono così tremendi che la tecnica venne infine abbandonata. Per lasciare il posto ad altre «invenzioni». Come l’«Acqua del Legno Santo delle Antille», il guayacan, o la «cioccolata afrodisiaca» del barone René-Guillaume Lefebure de St. Ildelphont. La quale, a fine Settecento, offriva a chi un po’ si vergognava d’avere addosso quella malattia, diceva il barone, un rimedio perfetto: «Un marito può bere la sua cioccolata in presenza della moglie senza che questa abbia il minimo sospetto». Ma funzionava? Boh… Certo è che per gli uomini di scienza un conto era andare a tentoni allora, un altro sarebbe andarci oggi.