Corriere della Sera, 3 aprile 2020
Riccardo Chailly e il coronavirus. Intervista
Nella sua casa appena fuori Milano, per il direttore musicale della Scala, Riccardo Chailly, questa sosta imposta dal coronavirus è dedicata allo studio della musica, alla lettura di libri accumulati e a capire che cosa sia la solitudine per un musicista. «La solitudine, per chi svolge un lavoro pubblico come il mio, offre l’opportunità di approfondire cose che da sempre avevo voluto studiare e hanno avuto un altro percorso. La solitudine, qui con mia moglie, è una situazione gradita che permette di amplificare le conoscenze senza la pressione del tempo. Penso che sia così per tutti gli amanti delle arti e della letteratura, discipline che richiedono riflessione e introspezione».
Una sosta come questa è un brusco cambiamento nel suo modo di vita…
«Mia moglie ed io abbiamo passato la vita viaggiando, spesso tornando a casa con le braccia affaticate dal peso delle borse dei libri e della musica. Riuscivo solo in parte ad affrontare questa enorme biblioteca: il tempo ci strangolava sempre. Ora si è sviluppato uno spazio di calma nell’intimità della famiglia. Questo consente di riflettere, maturare. La maturità non è data dall’età, ma da quanto si riesce a penetrare le cose. Per me questo è un aspetto molto importante, che mi porta anche a rifiutare proposte di direzione quando sono con tempi troppo stretti».
Un direttore vive di solitudine, ma anche di contatto con gli altri: la sua orchestra, il pubblico…
«Solitudine e stare con gli altri convivono, sono uno il compendio dell’altro. Ho contatti telefonici quotidiani con i collaboratori del teatro e i musicisti: parliamo a lungo e siamo molto preoccupati per il futuro. Questa tragedia è uno tsunami cosmico. Il teatro impone una amalgama collettiva, che nasce anche dalla vicinanza fisica tra i musicisti e tra coro e orchestra. È difficile pensare come ritrovarci domani. Ci ragioniamo. Di tanto in tanto penso con soddisfazione all’ultima prova del 26 febbraio di Salome».
Presto la vedremo in scena…
«Speriamo; elaboriamo giornalmente ipotesi. Ma sono convinto che anche il nostro settore non sarà più come prima: è una tragedia cosmica che ci cambierà».
Cosa sta studiando in particolare?
«In questi giorni stavo studiando il repertorio russo e pensavo ad Aleksander Scriabin e alla sua tormentata esistenza, e anche a Sergej Rachmaninov: sono biografie che fanno pensare all’importanza di condividere drammi profondi. Spesso dai drammi umani è nata una grande musica».
La musica può essere terapeutica?
«La musica è un modo di distrarsi, è un’astrazione che lenisce il dolore. A me dà carica positiva e allontana da quello che vediamo quotidianamente in televisione».
Oltre che con la musica, come passa il tempo?
«Sto leggendo Flaiano, che mi ha sempre interessato perché descrive l’Italia degli anni Sessanta in modo abrasivo, tagliente. Con mia moglie, che è appassionata di pittura, abbiamo passato un po’ di tempo sui dipinti di Charlotte Salomon che fu deportata a Auschwitz. Le sue sono pagine permeate di dolore che in un tempo così sospeso si comprendono meglio».
Pianoforte a parte, altri pensieri?
«Ai genitori. Ripensiamo alla loro mentalità, a quello che ci dicevano quando eravamo giovani e siamo arrivati a rallegrarci all’idea che ci abbiano lasciati in un momento diverso da questo, nel quale non è neanche possibile salutare i propri cari. È atroce l’assenza dei riti funerari».
Il nostro mondo si è rivelato molto fragile.
«Ci riteniamo evoluti e ci accorgiamo della fragilità di fronte a questa tragedia. A volte mi chiedo cosa abbiamo fatto per meritarci questo. Spero che l’arte possa recuperare un’idea più domestica e vicina alle persone».
Le mancano altri affetti?
«Il mio giardino confina con la casa di mio figlio, questo unisce, a giusta distanza, gli affetti e gratifica enormemente passare del tempo a chiacchierare anche con i nostri nipoti ragazzini molto coinvolti in questa fase del mondo. Penso che anche la fede possa essere di aiuto, così come l’amore che è un atto cruciale. Mi ha toccato molto vedere il Papa davanti a una piazza deserta. Ma Dio è dentro noi, la fede è un atto di fiducia individuale».
Lo dice perché ha passato molti anni a Lipsia e Amsterdam? Nei Paesi cattolici la fede è un atto comunitario…
«Sì, nei Paesi protestanti la Fede è vissuta in maniera più interiore. Ma anche ho condiviso l’affermazione di tanti sacerdoti che, di fronte ai fedeli che chiedevano il perché delle chiese chiuse, rispondevano invitando a cercare Dio in noi, non solo nella figura del ministro della Chiesa».
Lei, però, è il direttore dei grandi concerti di massa in Duomo per la Filarmonica…
«Ricordo quello per celebrare papa Montini nel suo anniversario, con la Missa composta da mio padre, un concerto preceduto da quello di Brescia: ogni tanto lo ricordo con monsignor Borgonovo. Ci sono tanti ricordi che rivivo in questi giorni».