la Repubblica, 1 aprile 2020
Quando Calvino tradì suo padre
«Forse tutto avrebbe potuto essere diverso», si chiede Italo Calvino, «se il crepaccio tra me e mio padre non fosse stato così fondo?». Se lo chiede in uno dei suoi rari scritti autobiografici, quello che dà il titolo a La strada di San Giovanni, una raccolta di «esercizi di memoria» – così li chiamava – uscita postuma.
Quel racconto mi ha sempre commossa, perché è la stessa domanda che mi sono fatta io. Nel bene e nel male, chi sarei diventata senza quel crepaccio, senza quella distanza spesso dolorosa? Calvino arriva a dire che «nella storia della civiltà» tutto avrebbe preso un’altra china, ed è così che prova, forse, a disinfettare la ferita aperta: ascrivendo il suo personale tradimento a un tradimento generazionale, imposto dalla Storia, o semplicemente dalla natura umana, perché non c’è altro modo di diventare adulti se non tradire chi ci ha fatto nascere.
«Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzitutto tener conto di com’era situata casa nostra», recita l’incipit, che è paradossale: l’ubicazione di Villa Meridiana non spiega solo la storia di Italo o della sua famiglia, ma addirittura la storia di tutti. Era una frontiera, quella casa «a mezza costa», fra due universi opposti: scendendo verso il mare si incontravano i negozi e lo struscio di Sanremo, salendo a monte era subito campagna. La strada di San Giovanni è la mulattiera su cui Mario, il padre di Italo, agronomo e botanico, si inerpicava ogni mattina, uscendo dal retro, per raggiungere le sue terre coltivate, e dalla quale ritornava carico di ceste che traboccavano di ortaggi. Nei giorni di vacanza dalla scuola, Italo e il fratello dovevano accompagnarlo a turno, o almeno andargli incontro, per aiutarlo a portare la roba fino a casa. Nessuno dei due aveva voglia di farlo, di certo non Italo, per il quale aveva senso solo la strada che si spingeva verso i cinema, verso il porto, verso la città, che era lo spiraglio di tutte le città possibili – esattamente il luogo da cui suo padre fuggiva.
Il biforcarsi inevitabile, eppure inaccettabile, delle loro esistenze è contenuto tutto in quella mulattiera scoscesa, che anni fa percorsi inciampando nei ciottoli, graffiandomi le dita nude nei sandali. Per il padre, era l’inizio del suo mondo, della sua idea stessa di mondo, ossia qualcosa su cui l’uomo può intervenire producendo bene, qualcosa che si può controllare, per esempio con le parole, che servono a dar nome alle cose. Per il figlio invece le cose erano mute, le parole non si ancoravano a oggetti, ma rimandavano a emozioni, fantasie, presagi. La pagina stracciata di un giornale calpestata per terra era per lui più interessante della realtà che lo circondava, le parole stampate evocavano immagini, accendevano invenzioni, mentre il lessico del padre, che sapeva nominare le piante in latino o in dialetto, a seconda dell’interlocutore e della situazione, Italo non l’ha mai imparato. Solo dopo ha capito di averlo perso irrimediabilmente, è stata una delle «mille perdite che ci infliggiamo e per cui non c’è rivincita». Ecco che cosa mi commuove. Il rimorso di un adulto che ripensa a quel silenzio ottuso sulla mulattiera, mentre camminava di fianco a suo padre, all’indifferenza con cui ne rifiutava l’eredità, quel mondo agricolo pieno di fiducia nell’uomo e nel suo contratto con la natura, alla rivendicazione del diritto di essere diverso, sé stesso e basta, non «u fiju du professù».
È una ricerca d’identità, ma anche il segno di una mutazione sociale. Per Mario, quell’universo di piante e fiori, quell’universo non antropomorfo, è l’unico di fronte al quale l’uomo può essere uomo, e l’idea di agire sul mondo per migliorarlo è un’idea politica. Il figlio invece è già un cittadino, un «candidato consumatore», abita un altro tempo: per questo Villa Meridiana, che sorge tra montagna e mare, che sorge in mezzo a due epoche, riesce a spiegare la storia del nostro Paese. Per quell’adulto diventato uno scrittore, ricordare, o almeno controllare i nomi esatti delle piante delle quali si occupava il padre, e trascriverli correttamente, sarebbe stato un gesto di pacificazione. Ma farlo gli è impossibile. Così la marcia verso San Giovanni «continua ancora, con il suo dissidio», ogni mattina è ancora la mattina in cui tocca a lui andare incontro al padre. Lo strappo non può ricucirsi, dura tutta la vita.
Eppure, quando nell’ultimo scritto della raccolta, Calvino afferma: « D’int’ubagu : dal fondo dell’opaco io scrivo», nell’usare un’espressione del proprio dialetto, lo stesso che parlava suo padre, nell’usare quel lessico familiare che aveva rinnegato per trovare la propria lingua, quasi la sua lingua madre fosse una lingua padre, non si sta riconciliando con lui? Quando dice che, se gli domandassero che forma ha il mondo, lui risponderebbe che è in pendenza, in verticale – come la strada che suo padre prendeva per andare in campagna –, non sta riconoscendo a posteriori, ora che ha frapposto una distanza di anni e di chilometri, la prospettiva originaria da cui guardare ogni cosa, il suo imprinting? È dalla terra del padre che Calvino ha scritto, anche quando viveva a Parigi, ed è in questa confessione, io credo, che la ferita si sutura.
L’ostinazione con cui il padre si arrampicava per la mulattiera e sentiva di esistere solo quando entrava nel suo mondo – e che il suo mondo non fosse il mondo intero lo disperava, come accade per qualunque ossessione – non è dissimile dalla vocazione con la quale il figlio ha cercato senso nella letteratura, l’unica maniera attraverso cui ha potuto possedere le cose, pure – in fondo – le cose di suo padre, adesso che le ha perdute, sì, ma può ancora scriverne.
Parlando de La strada di San Giovanni, oggi, sto scrivendo anch’io di mio padre, della sua ostinazione ad appartenere a un territorio che non ammetteva il mio, della cesura che ci ha tenuti per anni vigili, pronti a difenderci l’uno dall’altra, finché non ho riconosciuto, nello «spreco di sé opposto allo spreco generale del mondo» che ci accomunava, la stessa smania, la stessa lotta, lo stesso «dolore a esistere» che è mio.