Corriere della Sera, 1 aprile 2020
Il poemetto di Veronesi sull’epidemia
C’è un posto del mondo in cui il mondo non è più il mondo
e questo posto è qui.
Nella nostra casa, per chi ha una casa,
il mondo non è più il mondo.
Nelle stanzucce spoglie dove muoiono i vecchi,
cento volte al giorno,
e poi altre cento,
e poi ancora cento,
il mondo non è più il mondo
– e sono i nostri genitori già morti
che muoiono di nuovo,
tutti insieme, tutti i momenti,
ancora e ancora,
muoiono di nuovo,
mansuetamente, in silenzio, a pancia in giù,
perché non sappiamo proteggerli,
anche se fino a ieri, quando il mondo era il mondo,
quando sono morti per la prima volta,
lo sapevamo fare, e lo facevamo,
e ci toglievamo il sonno, e il pane dalla bocca,
per la gioia di proteggerli;
c’è questo posto maledetto del mondo
nel quale i nostri vecchi muoiono,
e noi non sappiamo nemmeno dove mettere i loro corpi,
dove ammassarli, dove bruciarli, dove seppellirli,
e questo posto è qui.
Negli ospedali strapieni, nelle chiese vuote,
nelle piazze deserte, nei parchi chiusi con le catene,
nei negozi serrati, nei supermercati presi d’assalto,
nelle code ordinate e nelle code disordinate,
nelle carceri sovraffollate,
dove nessuno può più ricevere
il pacco con gli spaghetti, le sigarette e il caffè
da dividere coi compagni di cella
che non hanno nemmeno quello;
nelle scuole senza caciara,
nei campi di calcio senza pallone,
nelle autostrade senza macchine,
negli aeroporti senza viaggiatori,
nei confessionali senza peccatori,
e nell’immagine blu di Papa Francesco
che prega, solo, al vespro,
sotto la pioggia di marzo
– in quella Piazza San Pietro senza fedeli
il mondo non è più il mondo.
Nello strazio della voce di Bob Dylan
che riemerge dopo otto anni,
e canta per diciassette minuti
la morte di un padre che non abbiamo saputo proteggere,
e tutti noi piangiamo per quella voce,
ma quella voce non è più quella voce,
e quello strazio non è più quello strazio
e quel padre non è più quel padre,
perché il mondo non è più il mondo.
Nei numeri dati a cazzo di cane,
alle sei di pomeriggio, ogni giorno,
prima i guariti, per dare un segnale di speranza,
poi i malati e infine, purtroppo, i deceduti,
e i deceduti sono mille,
sono mille, i deceduti,
in un solo giorno,
sono mille;
nel paragone con l’essere in guerra,
siamo in guerra, è una guerra, bollettino di guerra,
e invece non siamo affatto in guerra,
perché non ci viene chiesto di combattere
né di dare i nostri figli alla patria,
ma solo di restare tappati in casa,
di restare lontani, di restare separati,
di temere gli uni gli altri,
di diffidare gli uni degli altri;
nell’ordine di non indossare la mascherina,
poi di indossarla, sì, ma non quella,
quell’altra,
di lasciare quella a medici e infermieri,
come se a loro l’avessimo strappata dal volto,
e invece l’abbiamo comprata in farmacia
quando ancora dicevano che non serviva,
ma lo dicevano indossando la mascherina;
nell’accusa, implicita e a volte anche esplicita,
di essere noi i colpevoli di tutto
perché non sappiamo fare delle cose tanto semplici
– non uscire a respirare l’aria aperta,
non toccare le persone che amiamo,
non ricongiungerci con i nostri cari,
non prenderci cura di loro,
non correre, non passeggiare, non prendere il sole,
e veniamo accusati, inchiodati, tracciati,
con i droni, con le celle dei telefonini,
e puniti esemplarmente,
come i soldati di Caporetto
che furono cacciati come animali,
e fucilati come criminali,
perché fuggivano dagli errori dei loro generali.
C’è un posto del mondo in cui accade questo
e i bambini non sono più fragili, non si ammalano più,
e sono asintomatici,
e per questo pericolosi,
e in questo posto il mondo non è più il mondo,
e questo posto è qui.