Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  aprile 01 Mercoledì calendario

Il poemetto di Veronesi sull’epidemia

C’è un posto del mondo in cui   il mondo non è più il mondo 
e questo posto è qui. 
Nella nostra casa, per chi ha una casa, 
il mondo non è più il mondo. 
Nelle stanzucce spoglie dove muoiono i vecchi, 
cento volte al giorno, 
e poi altre cento, 
e poi ancora cento, 
il mondo non è più il mondo 
– e sono i nostri genitori già morti 
che muoiono di nuovo, 
tutti insieme, tutti i momenti, 
ancora e ancora, 
muoiono di nuovo, 
mansuetamente, in silenzio, a pancia in giù, 
perché non sappiamo proteggerli, 
anche se fino a ieri, quando il mondo era il mondo, 
quando sono morti per la prima volta, 
lo sapevamo fare, e lo facevamo, 
e ci toglievamo il sonno, e il pane dalla bocca, 
per la gioia di proteggerli; 
c’è questo posto maledetto del mondo 
nel quale i nostri vecchi muoiono, 
e noi non sappiamo nemmeno dove mettere i loro corpi, 
dove ammassarli, dove bruciarli, dove seppellirli, 
e questo posto è qui. 
Negli ospedali strapieni, nelle chiese vuote, 
nelle piazze deserte, nei parchi chiusi con le catene, 
nei negozi serrati, nei supermercati presi d’assalto, 
nelle code ordinate e nelle code disordinate, 
nelle carceri sovraffollate, 
dove nessuno può più ricevere 
il pacco con gli spaghetti, le sigarette e il caffè 
da dividere coi compagni di cella 
che non hanno nemmeno quello; 
nelle scuole senza caciara, 
nei campi di calcio senza pallone, 
nelle autostrade senza macchine, 
negli aeroporti senza viaggiatori, 
nei confessionali senza peccatori, 
e nell’immagine blu di Papa Francesco 
che prega, solo, al vespro, 
sotto la pioggia di marzo 
– in quella Piazza San Pietro senza fedeli 
il mondo non è più il mondo. 
Nello strazio della voce di Bob Dylan 
che riemerge dopo otto anni, 
e canta per diciassette minuti 
la morte di un padre che non abbiamo saputo proteggere, 
e tutti noi piangiamo per quella voce,  
ma quella voce non è più quella voce, 
e quello strazio non è più quello strazio 
e quel padre non è più quel padre, 
perché il mondo non è più il mondo. 
Nei numeri dati a cazzo di cane, 
alle sei di pomeriggio, ogni giorno, 
prima i guariti, per dare un segnale di speranza, 
poi i malati e infine, purtroppo, i deceduti, 
e i deceduti sono mille, 
sono mille, i deceduti, 
in un solo giorno, 
sono mille; 
nel paragone con l’essere in guerra, 
siamo in guerra, è una guerra, bollettino di guerra, 
e invece non siamo affatto in guerra, 
perché non ci viene chiesto di combattere 
né di dare i nostri figli alla patria, 
ma solo di restare tappati in casa, 
di restare lontani, di restare separati, 
di temere gli uni gli altri, 
di diffidare gli uni degli altri; 
nell’ordine di non indossare la mascherina, 
poi di indossarla, sì, ma non quella, 
quell’altra, 
di lasciare quella a medici e infermieri, 
come se a loro l’avessimo strappata dal volto, 
e invece l’abbiamo comprata in farmacia 
quando ancora dicevano che non serviva, 
ma lo dicevano indossando la mascherina; 
nell’accusa, implicita e a volte anche esplicita, 
di essere noi i colpevoli di tutto 
perché non sappiamo fare delle cose tanto semplici 
– non uscire a respirare l’aria aperta, 
non toccare le persone che amiamo, 
non ricongiungerci con i nostri cari, 
non prenderci cura di loro, 
non correre, non passeggiare, non prendere il sole, 
e veniamo accusati, inchiodati, tracciati, 
con i droni, con le celle dei telefonini, 
e puniti esemplarmente, 
come i soldati di Caporetto 
che furono cacciati come animali, 
e fucilati come criminali, 
perché fuggivano dagli errori dei loro generali. 
C’è un posto del mondo in cui accade questo 
e i bambini non sono più fragili, non si ammalano più, 
e sono asintomatici, 
e per questo pericolosi, 
e in questo posto il mondo non è più il mondo, 
e questo posto è qui.