La Stampa, 1 aprile 2020
L’incubo della carestia in Sicilia
Per un siciliano, sia esso di Palermo, di Catania o dell’interno profondo, parlare di fame equivale a dialogare con una delle proprie identità. Per quelli nati a ridosso della seconda guerra mondiale la piaga dell’assenza del minimo per sopravvivere è ancora un ricordo vivo della loro gioventù. Una sorta di marchio rimasto indelebile. Per questo gli effetti, diciamo economici, dell’epidemia Covid in quelle contrade possono apparire persino "ineluttabili". Già, perché la carestia - a certe latitudini - è considerata peggiore persino del contagio.
Per troppo tempo i siciliani (e gran parte del Meridione) si sono dovuti barcamenare tra mille espedienti per sfuggire ai morsi della fame e assicurare un pasto ai "picciriddi", ai bambini che - ricordano gli adulti - quando hanno fame "chiancinu" e nessun padre vuol sentir piangere i propri figli per la fame. Per anni e anni il lavoro nero, il sommerso, l’illegalità diffusa e tollerata hanno fatto da schermo alla voragine sociale del nostro Sud: Napoli, la Calabria, Palermo in piedi grazie ad una economia invisibile foriera di molta precarietà e pochissimi diritti e certezze. Un cumulo di macerie portate adesso in primo piano dal coronavirus.
C’era, qualche giorno fa, un filmato che girava sui social: un giovane papà con accanto la figlioletta che mangiava pane e nutella. A un certo punto, con l’atteggiamento tra lo scherno e la minaccia, il genitore si rivolge al «signor Conte» (il presidente del Consiglio ndr) e - indicando la bimba - gli dice: «La vede la bambina? Appena non ha più pane e nutella, esco e me la vado a prendere. I soldi sono finiti, ma la bambina deve mangiare». A guardarli, quel filmato e poi le immagini dei disordini nei supermercati, ci siamo sentiti afferrati per i capelli e riportati indietro in un’epoca che credevamo di poter dimenticare.
Era il tempo del «Biafra in casa»: il Cortile Cascino con una mortalità infantile al 12%, i bambini del Capo, della Vucciria, di Ballarò e dell’Albergheria denutriti e consegnati alla tubercolosi. Gli stracciaroli, i raccoglitori di cartone del Borgo Vecchio, i "ferrivecchi" e gli strozzini che si gonfiavano sempre più. Le donne andavano a prendere l’acqua alla fontanella e litigavano per poter mettere la pentola sul fuoco. I mariti battevano i quartieri alla ricerca di un qualunque lavoretto.
La spesa, se così si poteva chiamare l’acquisto di pane, pasta, olio e zucchero, veniva fatta a credito. Il bottegaio segnava sul quadernetto in attesa che il capofamiglia riuscisse a guadagnare qualcosa. Ma la pazienza del commerciante non era infinita e allora poteva capitare che si imbandisse "regolarmente" la tavola per consumare una cena che constava di pane "inzuppato" in un piatto di zucchero e basta. Le osterie, in inverno, fornivano un piatto caldo fatto di castagne secche bollite (le "allesse calde") e, quando era festa, un uovo sodo. Il macellaio lo si vedeva un paio di volte al mese. La domenica le donne gli chiedevano il dono degli "attaccagghieddi", cioè gli scarti, le cartilagini di vitello e maiale, utili per insaporire il sugo.
Ecco da dove viene il timore della fame, ancora più sentito in un popolo che - dicono in molti - proprio per questo «ragiona con lo stomaco». Si diceva così dopo ogni elezione che vedeva stravincere quei politici che nulla facevano per migliorare la vita dei "sudditi" i quali, inevitabilmente, «votavano con la pancia e non col cervello». Certo, non casualmente, accadeva che il voto di scambio - ai tempi di Lima, Gioia e Ciancimino - avvenisse coi pacchi di pasta e con le "boatte" di pomodori. E se si interrogava il popolo sul perché continuasse a tollerare, col proprio suffragio, quella situazione, ci si poteva imbattere nella realistica risposta: «Cu mi duna u pani e a pasta é me patri. Chi mi dà il pane è mio padre». E, dunque, era padre anche il mafioso che ti aiutava in attesa di poter poi riscuotere il favore (quante similitudini con oggi) e magari lo strozzino che si sostituiva al Monte di pietà (il banco dei pegni) trattenendo, però, non lenzuola e biancheria, ma le poche cose preziose che i poveracci avevano racimolato in una vita.
Questo è il terreno di coltura dove è necessario che non arrivino mai la rabbia e il bisogno odierni. La storia ci racconta cose non buone del nostro passato. Certo, molta acqua è passata sotto i ponti e i più giovani nulla sanno delle carestie di 70 anni fa. Ma certi processi fanno presto a riemergere dal ventre molle di una società che per anni ha tollerato il contrabbando di sigarette (e successivamente anche della droga) per evitare l’incremento di reati più gravi come rapine e scippi. C’erano questori che addirittura invitavano i governi a limitare l’azione della Guardia di Finanza sul contrabbando per scongiurare l’"assalto ai forni". Già, come quello che avvenne a Palermo nell’ottobre del 1944, quando il gen. Giuseppe Castellano (quello dell’armistizio di Cassibile) ordinò alla fanteria della brigata Sabaudia di aprire il fuoco sulla folla che chiedeva pane, lasciando per terra 24 morti e 158 feriti.