Avvenire, 1 aprile 2020
La Corea del Nord raccontata da un ingegnere fuggito
Resta un mistero, per l’Occidente, la vita quotidiana della Corea del Nord, il Paese più “chiuso” del mondo. Solo il racconto dei fuggiaschi che riescono a lasciare la comunista Pyongyang possono testimoniare cosa significhi vivere nella Repubblica popolare democratica della Corea del Nord, Paese a rigidissima dittatura made in falce e martello. Una recentissima testimonianza è quella di Mijin, libro appena uscito in Francia per le edizioni Bayard (pagine 228, euro 18,90), a firma di Dorian Malovic, giornalista esperto di questioni asiatiche, e Juliett Morillott, caporedattrice della rivista “Asialyst”.
La testimonianza che i due offrono è quella di Mijin, una donna nata nel 1969 nella provincia di Ryanggang–do, all’estremo nord del Paese, a più di mille chilometri dalla capitale Pyongyang. Arrivata a Seul nel 2010 con la figlia Jol–su di 16 anni, ha ripreso gli studi e trovato un lavoro come giornalista nell’agenzia di informazione Daily NK. Le informazioni che Mijin trasmette sono uno spaccato della vita ordinaria in un regime dittatoriale: «In Corea del Nord vivevamo dentro un universo talmente chiuso, isolato dal mondo esterno; non avevamo alcun riferimento straniero. Pensavamo di vivere in paradiso, secondo le parole della propaganda governativa, cosa che non solo era falsa all’epoca di Kim Il Sung (capo di Stato dal 1948 alla morte, 1994, ndr), ma con suo figlio Kim Jon–il (dal 2004 al 2011 leader nazionale, ndr), a partire dal 2004, abbiamo sperimentato l’inferno».
Tratto caratteristico di ogni dittatura è il disprezzo della verità e della comunicazione dei fatti: così la carestia che dal 1995 al 1997 ha fatto quasi 2 milioni di morti è stata sottaciuta e nascosta al mondo e agli stessi abitanti. Ugualmente, non si co- nosce la vicenda dei 300mila nordcoreani che tra il 1995 e il 1999 hanno cercato un rifugio “alimentare” in Cina, attraversando il fiume Tumen. Rievocando quei fatti, Mijin racconta episodi terribili, come quelli di cannibalismo: una famiglia del suo villaggio, dopo aver venduto tutti i suoi averi, ha sacrificato uno dei suoi figli per non morire di fame. E le esecuzioni sommarie di quanti cercavano in tutti i modi di resistere: «Nel mio villaggio ho assistito a diverse esecuzioni pubbliche. Come quelle dei giovani di vent’anni che avevano rubato dei cavi elettrici per rivenderli in Cina e procurarsi del cibo e delle medicine per le loro famiglie».
Nel 2019 una ong sudcoreana ha contato almeno 400 luoghi di esecuzione pubbliche in Corea, conducendo un’indagine meticolosa e intervistando 610 fuggiaschi dal Paese. Oggi il numero delle esecuzioni è diminuito, dicono gli esperti. E se, fino alla fine del secolo scorso nel Paese si contavano una ventina di campi di internamento, attualmente il loro numero è sceso: ciononostante, oggi sono tra gli 80mila e i 120mila i nordocreani imprigionati per ragioni ideologiche oltre a 70mila carcerati per “crimini comuni”. Solo nel 2014 il regime ha ammesso pubblicamente di possedere «strutture di detenzione e rieducazione attraverso il lavoro». Anche sulla sanità il regime è quanto mai deficitario: l’università di medicina di Harvard e un istituto di ricerca belga hanno stimato in 16 mila i nordcoreani che muoiono ogni anno per l’insufficienze sanitarie.
Se la regola governativa è quella di tenere nascosto tutto di sé, lo stesso – ne è testimone la stessa Mijin – avviene a livello delle strutture fisiche: esiste un mondo sotterraneo in Nord Corea fatto di nascondigli, bunker, luoghi inaccessibili, che lei stessa, laureata in ingegneria mineraria e dipendente dell’Ufficio delle miniere e delle strade della sua provincia, ha contribuito a edificare: «Le apparenze ingannano. Nel cuore dei massicci montuosi del Paese, ottimamente nascosti, si trovano centri di ricerca, fabbriche, arsenali militari e basi sotterranee immense. Centinaia di chilometri di tunnel interconnessi gli uni gli altri innervano il sottoterra nordcoreano. Carri armati, tank, blindati leggeri, camion e anche caccia militari sono parcheggiati sottoterra, nel fianco delle colline, invisibili all’esterno». «La società egualitaria nordcoreana è un mito diffuso dall’Occidente che non sa nulla della realtà della Corea del Nord – continua Mijin –. Anzi, sotto il nuovo leader Kim Jong–un, le ineguaglianze si sono accresciute ancora di più con l’emergere degli uomini e delle donne d’affari», modello nordcoreano del capitalismo selvaggio di marca cinese. Quasi una nemesi della storia, visto che, invece, negli anni Sessanta erano stati molto numerosi i cinesi che si erano rifugiati in Corea del Nord a causa della siccità che aveva colpito le campagne cinesi.
Mijin snocciola altri elementi tipici della dittatura di Pyongyang, oggi retta dal giovane Kim Jong–un: «Per i maschi il servizio militare obbligatorio è di ben 10 anni; anche le ragazze, dal 2015, devono fare 3 anni sotto le armi, tra i 17 e i 20 anni». Un fatto che secondo Mijjn caratterizza fortemente la Corea del Nord di ieri e di oggi rimane la corruzione: «Da noi tutto si compra, conformemente al proverbio Donimyen chonyeo bulaldo sanda, “con i soldi si possono comprare i testicoli di una vergine”. La corruzione è dappertutto, è necessaria e fa parte del quotidiano».
Singolari e curiose infine le notizie che i due autori riferiscono del mondo cristiano della Corea del Nord, paese che non riconosce la libertà religiosa, se non delle strutture totalmente assoggettate all’autorità pubblica come una chiesa cattolica nella capitale e pochi altri templi simili, diretti da personalità alle dipendenze del Partito. In passato così non era: «All’inizio del XX secolo Pyongyang brulicava di un’eccezionale attività missionaria. Scuole, istituti, ospedali, seminari testimoniavano un’effervescenza religiosa dominata dai protestanti. Pyongyang era soprannominata “la Gerusalemme dell’Est”. Negli anni Trenta un abitante su tre della capitale era cristiano».
Malovic e Morillot riferiscono la testimonianza del docente americano Samuel H. Moffett: «Quando mio padre arrivò in Corea nel 1890, si contavano tra i 10mila e i 17mila cattolici. Secondo le statistiche vi erano solo 74 protestanti. Quarant’anni più tardi, quando ero un ragazzo, la Corea contava 415mila cristiani, il 2% della popolazione». E ciraccontano anche aneddoti legati all’educazione cristiana dei futuri dittatori comunisti nordcoreani: Kim Il Sung confessò che da piccolo frequentava una chiesa presbiteriana con la madre, una pentecostale fervente (ma lui preferiva, disse, «andare a pescare»). Tant’è: salito al potere nel 1948, il primo presidente della Nord Corea comunista fece distruggere le duemila tra chiese cattoliche e protestanti presenti nel Paese, oltre ai 400 templi buddisti: tutto il personale religioso venne arrestato, ucciso o mandato in carcere. Tutti gli edifici (scuole, seminari, chiese o templi) confiscati. E oggi anche il solo possedere una Bibbia significa essere spediti in carcere.