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 2020  aprile 01 Mercoledì calendario

Chi era davvero Annibale? Una nuova biografia

Piaccia o non piaccia, Benedetto Croce qualche volta aveva ragione. Come quando proclamava, con scandalo degli storici “di professione” di allora, che la biografia era la regina della storiografia, il sottogenere storico più amato ed efficace, il banco di prova sul quale davvero si misurava il valore di uno studioso di storia. La cosa non piace ai professionisti “seri” della ricerca. Ma il grande pubblico apprezza e condivide quell’idea.
Ma la biografia, tra i suoi difetti, ne ha uno quasi patetico. Fa sì che di solito il biografante finisce con l’innamorarsi del biografato. Se mi è permessa una nota personale, l’ho provato con Federico Barbarossa, che pure è un soggetto storico per certi versi comodo. L’amore può essere nascosto, negato, contrastato: ma c’è. Che Luciano Canfora si sia “innamorato” di Giulio Cesare (ma lo era già da prima di scrivere il suo saggio sul “dittatore democratico”) o che ai suoi tempi Helmut Berve si fosse innamorato di Milziade, si può capire, come Lucien Febvre o Luigi Mascilli Migliorini di Napoleone; ma il sospetto è che anche Renzo De felice sotto sotto una cottarella per il Duce se la sia presa. E non parliamo per non entrare in argomenti scabrosi di certi biografi di Hitler o di Stalin. Beninteso, si tratta di un amore scientifico: che non ha nulla a che fare con l’aspetto ideologico oppure etico della persona biografata. Anni fa Umberto Eco, provocato da un intervistatore proprio su questo tema, rispose che era del tutto normale: esattamente come il microbiologo che studia la spirochèta pallida (l’agente della sifilide) e finisce con l’invaghirsi anche di lei. Ci siamo chiesti spesso in che senso Giovanni Brizzi, uno dei migliori storici della Roma antica e delle istituzioni militari, sia innamorato di Annibale. Perché è ovvio che lo storico debba essere equo: ma tale aggettivo non è sinonimo né di imparziale, né d’indifferente. E se è legittimo che un microbiologo s’innamori della spirochèta, figurarsi se il biografo di Spartaco, di Silla e di Scipione non ha voluto bene anche a loro, e figuriamoci se in interiore homine non è dannatamente filoromano. Eppure il suo grande amore rimane Annibale. Contraddizioni e lacerazioni della storia e della coscienza. Del resto, quanti austeri studiosi britannici della seconda guerra mondiale non sono, in realtà, degli innamorati di Heinz Guderian? E c’è da chiedersi come sia impossibile non esserlo.
Quindi, Brizzi ama Annibale. Sarebbe interessante sapere come e quando ha preso al cotta. Un po’ come il giovane Werther di Goethe, che pare s’innamorasse della gentile Carlotta vedendola imburrare leggiadramente delle tartine. Il suo Annibale laterziano ha fatto sicuramente epoca. Ma ora questo suo Io, Annibale. Memorie di un condottiero (Laterza, pagine 339, euro 22) lo batte. Siamo di fronte a un grande libro, nel quale Giovanni Brizzi riversa, pur riuscendo a non ripetersi né ad “autoplagiarsi” mai, alcuni decenni di studi ricchi peraltro di ripensamenti e anche di crisi: perché siamo davanti a uno studioso che ha il coraggio e l’onestà intellettuale di rimettersi di continuo, e talora duramente, in discussione.
Come nelle belle pagine in cui, ora apertamente ora implicitamente, si trova ad affrontare il problema – qualcuno lo stimerà uno “pseudoproblema” – della duplice natura della sua coscienza identitaria, del suo essere un punico figlio della suicida Elissa/Didone e della sua anima ellenica erede di Alessandro e attraverso di esso di tutta una civiltà ellenistica che Roma avrebbe poi ereditato e rivendicato, ma della quale alla fine del III secolo essa poteva sembrare piuttosto la predatrice e la nemica. Era alla tradita Didone o alla Magna Grecia calpestata che il giovane Annibale pensava, mentre giurava odio eterno contro i romani?
Il libro è pregevole per molti motivi. Se ne appezza soprattutto la stringatezza, lo stile qua e là “cesariano”adatto al suo protagonista/ io narrante: asciutto, diretto, essenziale. Uno stile che racconta anche quelle cose che, in un contesto ricchissimo di fatti, non può indugiare a descrivere in dettaglio. Leggete con attenzione le poche pagine, dalla 112 alla 118, riservate all’epopea del passaggio delle Alpi al tramonto delle Pleiadi, con quel vento che trascina «fiocchi radi e taglienti come lame»: Tolstoj non lo avrebbe detto meglio. Rammento en passant a chi ami le cose di montagna che è consigliabile la lettura del recentissimo L’Impero in quota. I Romani e le Alpi, di Silvia Giorcelli Bersani (Einaudi).
Nella sua breve ma lucida prefazione al libro di Brizzi, Sabatino Moscati rievoca il libro di una trentina di anni or sono nel quale Amedeo Maiuri, «il famoso archeologo, senza dubbio il più grande del XX se- colo, si trasformava in un letterato finissimo»: le Lettere di Tiberio da Capri. Credo che per Brizzi l’essere stato avvicinato a Maiuri da uno studioso come Moscati equivalga a una sorta di Légion d’Honneur morale: anche perché – ed è importante – ne riconosce non solo il rigore di studioso, ma anche la qualità di scrittore. Leggendo Io Annibale non è a Maiuri che capita di pensare bensì a un capolavoro del secolo scorso, uno dei più grandi: le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, alle quali Giovanni Brizzi non può non essersi ispirato.Si pensa subito a quel grande, sofferto libro avviato negli anni Trenta del secolo scorso e completato dopo ripetuti abbandoni una ventina di anni dopo: e ci si pensa proprio in relazione a Brizzi stesso, che nel 2015 ci ha regalato quel bel saggio 70 d.C. La conquista di Gerusalemme, che appena uscì mi obbligò a pormi una domanda alla quale non riesco a dare una risposta: perché la Yourcenar abbia steso un velo di silenzio sulla distruzione, da parte di Adriano, di Gerusalemme o di quel che ne restava, circa sessant’anni dopo quella di Tito. Del capolavoro della Yourcenar, una cosa però colpisce: l’amore ossessivo di Adriano per la caccia, un tratto che per la moderna sensibilità stonava con la sua filosofica mitezza. Le cacce di Adriano… Un libro, sul modello della Yourcenar, sostenuto completamente, da cima a fondo, sul registro della prima persona. Con un’immedesimazione senza dubbio sul filo del rischio continuo di appannare il giudizio critico e di cedere al gioco quasi necromantico dell’evocazione. Libri come questo, fosse anche l’unico che Giovanni Brizzi fosse riuscito a scrivere, riempiono una vita.