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 2020  aprile 01 Mercoledì calendario

La pandemia del greggio mette in difficoltà Trump

L’industria petrolifera mondiale si trova di fronte alla tempesta perfetta. A causa della recessione da Covid-19 la domanda mondiale di petrolio potrebbe calare nel 2020 di 20 milioni di barili di petrolio al giorno (mbg), il peggior calo della domanda nella storia del petrolio. Dal lato dell’offerta è in atto una “guerra del petrolio” lanciata dall’Arabia Saudita a suon di ribassi dei prezzi e aumenti della produzione dopo che la Russia, nella riunione Opec Plus del 6 marzo, aveva rifiutato di collaborare a un taglio coordinato delle produzione. Il risultato è che il Brent viaggia oggi a meno di 25 dollari al barile, il 50% in meno di inizio marzo, e potrebbe scendere ancora.
Il tracollo dei prezzi del greggio acuisce l’instabilità dei Paesi esportatori di petrolio come il Venezuela e l’Iran, già tormentati da crisi sociali e politiche, quando non da guerre civili, e rischia di ritardare gli investimenti nelle energie rinnovabili. Sta facendo anche molto male agli Stati Uniti, il protagonista assoluto dell’industria petrolifera mondiale che nel 2019 era il maggior produttore di petrolio e gas naturale al mondo.
Con un prezzo del greggio americano sotto i 30 dollari al barile (oggi il WTI viaggia intorno ai 20 dollari) solo tre delle società che producono nella valle dell’Eden dello shale, il Bacino Permiano del Texas, può coprire i costi di produzione. L’industria dello shale è indebitata per oltre 200 miliardi di dollari ed è da tempo la principale erogatrice di “debito spazzatura”. In Texas lavorano direttamente nel settore circa 360mila persone e l’industria rappresenta più del 10 per cento del Pil statale. Il prezzo all’ingrosso della benzina a Chicago è arrivato a 15 cent al gallone (4 cent al litro, quasi costa più la tanica), mentre alcune qualità di greggio si vendono a prezzi negativi.
La storia d’amore americana per il petrolio è mutata nel tempo. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla crisi energetica degli anni 70 è stata segnata dal prevalere della regolazione sulla logica di mercato; dagli anni 80 a prevalere è stato il mercato “deregolato”. L’era della regolazione ha avuto come protagonisti il monopolio Standard Oil di John D. Rockefeller, poi l’intervento della Texas Railroad Commission per regolare la produzione del Texas (il Texas è oggi il terzo produttore mondiale dopo Russia e Arabia Saudita), poi l’oligopolio di Big Oil (“le sette sorelle”) in combinazione con quote all’importazione per difendere i produttori indipendenti americani.
Il punto di svolta fu il raggiungimento del “picco” nella produzione americana nel 1970 e la decisione del 1973 di abolire le quote all’importazione. Era il tempo dello “choc petrolifero” causato dall’Opec e dell’incubo delle file interminabili ai benzinai. Per superare la crisi energetica la parola d’ordine divenne: “deregolamentazione”. La deregolamentazione avviata da Jimmy Carter, accoppiata ad alcune misure per incentivare l’efficienza energetica, contribuì a una riduzione dei consumi americani che, a sua volta, fu alla base del collo dei prezzi del petrolio negli anni 80 (il cosiddetto “contro-choc”). Reagan festeggiò nel 1986 smantellando dal tetto della Casa Bianca i pannelli solari che aveva fatto installare il suo predecessore. Il mercato vince sempre. Dagli anni 80 la politica americana, indipendentemente dall’inquilino della Casa Bianca, è stata quella di pompare più petrolio possibile, con ogni mezzo a disposizione.
Quando i prezzi del petrolio cominciarono a salire fino a toccare i 145 dollari al barile negli anni 2000, nuove tecnologie come il “fracking” diventarono convenienti. Si avviò cosi la “rivoluzione dello shale” che ha fatto lievitare la produzione americana di petrolio da 5mbg nel 2008 fino a oltre 12 mbg giorno nel 2919. Con Trump, pur se gli Stati Uniti restano un importatore netto, la produzione ha superato abbondantemente il “picco petrolifero” che il geologo King Hubbert aveva previsto per il 1970. Il tracollo dei prezzi a marzo svela l’ipocrisia di un Paese che voleva  tornare a essere un esportatore, per la prima volta dal lontano 1948, lasciando solo all’Opec il ruolo di regolatore mondiale. Trump si trova di fronte ad alternative, tutte dolorose.
Può intervenire per puntellare il settore dello shale (già aiutato dagli acquisti della Riserva di petrolio strategica) con misure fiscali e bail out, nonché reintroducendo dazi o quote all’importazione. Presterà il fianco alle critiche scontate degli ambientalisti, ma anche a quelle degli altri settori che avranno bisogno di sostegno governativo. Può decidere di abbandonare lo shale in una lotta darwiniana per la sopravvivenza. Rischierebbe così una crisi finanziaria, una dramma economico e occupazionale negli Stati produttori come Texas e North Dakota, nonché la plateale ammissione che lo slogan dell’ “indipendenza energetica” non era che fake news. Infine può intervenire attivamente nel settore smentendo quasi mezzo secolo di “deregolamentazione” e dialogando alla pari con Arabia Saudita e Russia. Significherebbe accettare la regolazione della produzione tramite la Texas Railroad Commission, considerata una reliquia dell’era socialista, nonché aprire un negoziato diretto con l’odiata Opec. Trump probabilmente imboccherà tutte e tre le strade insieme, sancendo la fine dell’era della deregolamentazione e dei sogni di gloria di “indipendenza energetica” americana.
La diminuzione della domanda mondiale di greggio è l’unica buona notizia in un contesto terrificante. Lasciare alle forze di mercato la gestione dello “choc-Covid” nel settore petrolifero significherà crisi finanziarie e sociali, nonché drammatiche tensioni nello scenario internazionale.