La Stampa, 31 marzo 2020
Intervista a Vincenzo Mollica
Il pensionato più famoso dello spettacolo italiano è il giornalista che l’ha raccontato per quarant’anni al Tg1. Dopo il gran finale di carriera, festeggiatissimo, all’ultimo festival di Sanremo, Vincenzo Mollica torna sulla «sua» rete ammiraglia questa sera come «voce narrante» di Musica che unisce. Sottinteso: in tempo di epidemia.
Mollica, di che si tratta?
«Di una serata cui partecipano molti dei maggiori nomi della musica italiana ma anche altri artisti, sportivi, attori. Un’iniziativa di solidarietà per la Protezione civile, un grande racconto in un momento così doloroso in cui è necessario aiutarsi gli uni con gli altri. Beninteso, ognuno da casa sua. Ma, si spera, nelle case di tutti».
Mai pensionamento è stato celebrato come il suo. Sarà lusingato, ma si è chiesto anche il perché?
«È proprio l’unica domanda che non mi sono fatto. Tante manifestazioni di affetto mi hanno sorpreso. Forse è piaciuta l’idea che ho sempre avuto di un giornalismo del servizio pubblico che fosse, appunto, al servizio del pubblico».
In quarant’anni ha intervistato tutti. Fra chi non c’è più, chi le manca?
«Sicuramente Federico Fellini. Nel mondo del cinema aveva un soprannome: il Faro. Ma era un faro anche nella vita, una di quelle rare persone che ti regalano la prospettiva mancante, ti svelano quel che non riesci a vedere pur avendolo sotto gli occhi. Mi manca molto. Personalità così sono rare».
Rare o uniche?
«Rare, erano così anche Alda Merini o Andrea Camilleri».
Passiamo ai vivi. Perché nella tivù italiana Fiorello fa categoria a parte?
«Perché è un inventore di spettacoli. Perché fa fiorire quel che gli sta intorno. Perché sa fare tutto bene, balla, canta, recita, intrattiene. Perché ti fa anche riflettere, ma sempre con il sorriso. Perché lascia sempre il segno. E infine perché fa la tivù solo quando ha qualcosa da dire, mai per esserci e basta».
Parliamo di Sanremo: ce ne libereremo mai?
«Io ne ho fatti trentanove e non l’ho mai considerato una condanna. È scontato dire che è lo specchio del Paese. Però è vero che ogni anno ci consegna un piccolo frammento di storia».
Il migliore?
«L’ultimo. Il sentimento di amicizia fra Fiorello e Amadeus è stato toccante. Amadeus è riuscito nell’impresa di far fare a Rosario quattro serate. E poi mi hanno fatto un regalo festeggiandomi, prima loro all’Ariston e poi i colleghi in Sala stampa. Momenti bellissimi».
E il Festival peggiore?
«Ma no, Sanremo va bene anche quando va male. È come la festa del Patrono: una festa, appunto».
Vedo che è vero che lei non parla mai male di nessuno.
«Io ho fatto la scelta di occuparmi delle cose che mi piacevano, mai di quelle che ritenevo sciocchezze. La stroncatura non mi piace, è l’arma più facile. Se qualcosa non mi convinceva, preferivo usare l’ironia. La stroncatura è un atto narcisistico, l’ironia aiuta a capire».
Quali sono le voci preferite di Mollica?
«Due su tutte: Mina e Celentano. A proposito di Adriano a Sanremo: nell’anno della Ventura fece uno show a sorpresa. Mi aveva annunciato che sarebbe venuto ma vietandomi di dirlo, perché non voleva guastare la sorpresa. Vedendolo arrivare così, come un ragazzo, e cantare un rock mi sono commosso».
Perché cultura e spettacoli stanno scomparendo dai giornali?
«Non lo so. Per me sono indispensabili. Per fortuna ci sono i social. Spesso se ne parla male, ma molta della bellezza che ci circonda, la musica, i libri, il cinema, l’arte, il paesaggio, la incontriamo lì».
Facciamo che lei diventi direttore generale della Rai...
«No, è impossibile. Quando ami il tuo lavoro vuoi fare solo quello. La carriera non mi ha mai interessato. Quand’era direttore del Tg1, Clemente Mimun mi aveva chiesto di diventare il vice. Ho rifiutato perché quello che mi piaceva fare era il cronista».
Ci è riuscito?
«Dice un altro grandissimo come Paolo Conte che si nasce soli, si muore soli e nell’intervallo c’è un gran traffico. Io da ragazzino volevo occuparmi di musica, di cinema, di fumetti, di libri, di arte e ho avuto un gran traffico di questo. Mi considero un uomo molto fortunato».