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 2020  marzo 30 Lunedì calendario

Biografia di Lennart Skoglund

Vieni anche tu, riserva, ma stai pronto. George Raynor deve ribaltare la Svezia che parte per Rio de Janeiro, mondiale del ’50, forte, anzi fortissima, ha tirato legnate in giro per l’Europa, è andata in Germania e ha vinto, in Ungheria e ha vinto, ha battezzato anche gli inglesi ma adesso si cambia, aria nuova. Raynor è un ex centrocampista inglese, niente di speciale, ha girato in squadre di seconda linea ma fin dalla nascita il calcio scandinavo ha viaggiato all’ombra dei maestri inglesi, ne ha sempre imitato gioco e tattica e Raynor è considerato uno dei più esperti. Applica il sistema a WM nel quale hanno la massima importanza i tre davanti e lui ha qualche idea, promuove Hans Olof Jeppson del Djurgarden al posto di Gunnar Nordahl che è venuto a giocare nel Milan, tiene d’occhio un certo Kurt Hamrin, 16 anni troppo giovane, e pensa a Lennart Skoglund, 19 anni. Gioca nell’Ajk Stoccolma, nella capitale è già un idolo, biondo, paffutello, faccia da clown, dribbling sudamericano, ride sempre, lo chiamano «Nacka», il nome del quartiere dove è cresciuto, in strada a calciare la palla di stoffa imbastita da sua madre che ogni sera la deve ricucire.
Nove undicesimi di quella squadra finiscono a giocare da noi, compreso il «Nacka» che il presidente Carlo Rinaldo Masseroni porta a Milano con 20 milioni strappandolo a Barcellona e Real Madrid. Con la palla fra i piedi è un pozzo di idee, fa il suo esordio in un’Inter-Sampdoria che finisce 5-1 e dopo un quarto d’ora è già l’idolo dei tifosi interisti. Ha sempre segnato e bevuto molto, la domenica pomeriggio lo trovavi negli stadi a gonfiare le reti, di notte nei pub a fare il pieno. Sempre sbronzo, anche nella finale del mondiale contro il Brasile, lo racconta e ride.
Ha una testa di capelli folti e biondissimi che fanno girare tutte le donne di Milano, e lui non si fa pregare. Lo ribattezzano la Wandissima, il nome della platinata soubrette Wanda Osiris che scende dalle scale con un incedere elegante e supremo, lui invece sale la scaletta che dagli spogliatoi lo porta in campo, ma è uguale, fa l’istes, dicono in città. Grande frequentatore di night club, la sua casa, ne apre uno in Paolo Sarpi, lo chiama «Nacka» e attorno a quel ritrovo si forma una compagnia di fannulloni, perditempo, latin lover e ragazzi felici che fa epoca nella Milano del dopoguerra. Di fronte all’entrata c’è una gigantesca foto in bianco e nero di un derby che occupa tutta la parete e lui in area che gioca con gli avversari in ginocchio. Tutti gli avventori giurano che quel giorno c’erano anche loro e lui, dopo una decina di dribbling, la mette. Notti di nebbia che non ti fanno vedere neppure la punta delle scarpe e in quegli anni Lennart Skoglund costruisce la sua leggenda. Dicevano che nascondesse la bottiglia di grappa dietro alla bandierina del corner, li vuole battere sempre tutti lui, con la scusa di sistemare la palla si china e si fa un goccetto. Le cronache sportive parlano del «Nacka» come del più grande, bandiera pazza di un attacco formidabile che schiera contemporaneamente Servaas Wilkes, Stefano Nyers e Benito Lorenzi, lui all’ala sinistra. Va sul fondo, ci resta una vita con la palla fra i piedi e si mette a scartare una, due, tre volte il suo avversario, gli da il tempo di rialzarsi, lo aspetta e lo dribbla un’altra volta. Nino Nutrizio, direttore de La Notte, gli dedica venti righe auliche nel giorno di un Inter-Juventus 6-0: ha una grazia nel tocco, un’eleganza e una precisione che ne fanno il più grande giocatore del nostro campionato, nessuno oggi è in grado di fare quello che fa lui. Milano ai suoi piedi e lui ai piedi dell’alcol.
Un bel giorno sparisce, introvabile.
Il presidente Masseroni è preoccupato, il Nacka si sta buttando via, così non dura, chiama un dirigente e gli prenota un volo per Stoccolma: vai e torna qui con suo padre, bisogna farlo tornare sulla giusta via. Il papà sbarca a Milano, Masseroni gli racconta un po’ di cose e gli chiede di trovarlo. Spariscono tutti e due. Dirigenti, accompagnatori e perfino compagni di squadra a setacciare di notte i night della città, niente. Li trovano alle prime luci dell’alba in un locale lungo i Navigli, sotto un tavolo, abbracciati, il pallone dimenticato, la felicità negli occhi, uno più storto dell’altro.
All’Inter ci resta dieci anni, va alla Sampdoria, poi al Palermo, ha perso il suo dribbling d’oro, pelle raggrinzita, pancia, si allontana dalla fascia ma non dalla fiaschetta. Qui si è sposato, figli, scappa a Stoccolma dove gioca nell’Hammarby e tira in piedi un’altra relazione. Lei lo lascia, beve troppo, non c’è pace. Finisce in galera per guida in stato di ebrezza, entra e esce dal Solna Semesterhem un centro di assistenza per alcolizzati, i pochi amici che gli sono vicini giurano che vuole tornare i Italia, riabbracciare sua moglie e i suoi figli, ma non gli riesce. Disperato, ingoia una cinquantina di barbiturici, lo salvano e su un quotidiano esce il commento: ha fallito anche come suicida.
Una statua in acciaio lo ricorda all’angolo di via Katarina Bangata-Branerigatan dove è nato. Il re del dribbling è un lavoro teatrale di Jan Halldof, un suo compagno d’infanzia che racconta la storia di un ragazzo nato nella periferia di Stoccolma che sbarca in Italia, soldi, fama, tanto alcol, morto a neppure cinquant’anni con un’altra faccia.