la Repubblica, 30 marzo 2020
Reportage dall’ospedale di Bergamo
Dentro, il dopo non è ancora arrivato e domani resta lontano. «Mai viste – dice il dottor Massimiliano De Vecchi – tante barelle piene di corpi nei corridoi e tanti malati morire senza dire una parola. Sono vecchio: da studente pensavo che la medicina fosse più forte». Tra i letti dell’ospedale Papa Giovanni XXIII non è ancora il tempo della politica. La ricostruzione del mondo demolito da un virus, a Bergamo ricorda appena il calore di una speranza appresa da ragazzi nei libri di storia. «Cosa si dice là fuori – chiede l’infermiera Andreina Scotti – ce la faremo a credere alle promesse della primavera? Qui l’inverno sembra voler durare tutto l’anno». Si riferisce al freddo della vita, che anche per lei «si è fermata da oltre cinque settimane». Trentasette giorni, li segna ogni mattina con un puntino di biro rossa sul calendario. Per i medici e per gli infermieri però, qui è come fosse uno. «O forse un’epoca – dice Luigi Frigerio, 69 anni, direttore del reparto di ostetricia e ginecologia – che marca un dentro e un fuori per le corsie, un prima e un dopo per tutti. Sano, a voler essere concreti, è un termine da ripensare». Anche lui è un sopravvissuto. Selezionato dal coronavirus è finito in terapia sub-intensiva nel giorno del suo compleanno. Un istante prima faceva il medico e respirava, quello dopo era un malato e si sentiva soffocare.
«Non si può parlare del futuro – dice Renata Colombi, 52 anni, medico del pronto soccorso – quando senti che il presente è un respiro che ancora ti sfugge di mano. Gli economisti fanno conti impossibili da seguire, i Grandi fissano la mascherina dietro le orecchie e parlano con le certezze di equilibri che sappiamo travolti. A me sembra onesto non smettere di guardare il carico rovesciato dalle ambulanze e quello stivato dai camion militari in marcia verso i forni crematori». Per questo, oggi, siamo qui. Una tensione antica e semplice: documentare una giornata con medici, infermieri, malati e moribondi che da oltre un mese resistono soli, dentro l’ospedale simbolo del Covid-19 in Europa, nella città ridotta alla Wuhan dell’Occidente.
Epicentro silenzioso
Il Papa Giovanni XXIII è enorme e somiglia a un aeroporto ottimista dell’Asia. I suoi corridoi pieni di palme da agenzie di viaggio sono deserti. «Prima, dice la dottoressa Vanna Toninelli – entravano e uscivano 10 mila persone al giorno. Adesso è chiuso: restano mille ammalati, la metà è colpita dal virus. Loro, i medici e gli infermieri: gli affetti sono un lusso che non possiamo permetterci». È giusto chiamarlo lazzaretto, senza vergognarsi. L’hanno occupato gli infetti ed è l’epicentro silenzioso di una catastrofe che riscrive l’idea dell’umanità. «Però si nasce ancora — dice Valentina, infermiera delle terapie intensive – e le grida di dolore della mamme non mettono più i brividi. Sono l’unica gioia della giornata». Cinzia Capelli, 60 anni, infermiera, da fine febbraio entra nel pronto soccorso alle 6 del mattino ed esce alle 22. Deve cercare letti e per riuscirci chiama tutti i reparti. Davanti a lei, una sessantina di barelle con i contagiati che cercano ossigeno. «Il 17 marzo – dice il primario Roberto Cosentini – siamo arrivati a 102 malati in attesa di una macchina per respirare. Adesso siamo stabili, tra 40 e 60: tutti gravi però, molti giovani, gli altri non vanno a prenderli. La data di nascita condanna a morire in casa, spesso da soli».
Anche qui qualcosa è cambiato. Il pronto soccorso non era un luogo pensato per chi muore. Era un’anticamera, il posto per scegliere dove mandare una persona per essere curata. Oggi invece, cinque morti in poche ore mentre aspettavano un respiratore. «Una cinquantina – dice il dottor De Vecchi – dall’onda salita ai primi di marzo. Morti prima ancora di ricevere ciò che, nell’era della fiducia, avevamo definito pronto soccorso. Mio padre Giovanni aveva 86 anni: l’ho lasciato spegnere nel suo letto, qui non c’era posto nemmeno per lui». I letti Covid sono saliti a 450: 82 in terapia intensiva, 368 sparsi tra i reparti riconvertiti. Esibiscono un carattere comune: sotto il lenzuolo bianco, facce bianche sono ridotte a due enormi occhi neri. Nessuno parla. «Prima – dice la dottoressa Patrizia Trivella – i malati chiedevano. Quando andrò a casa, dove mi mandate, cosa ho, cosa mi date, cosa mi fate, quando possono venirmi a trovare. Bene, adesso basta. Solo silenzio e la paura in fondo allo sguardo. Si affidano a noi, come se il virus facesse tornare bambini».
Siamo umani, non eroi
Medici e infermieri non sono eroi. L’eroismo è l’istinto di una vita risolta per caso con un attimo generoso. Chi qui rimane al suo posto lo sceglie ogni giorno dal 20 febbraio e si è preparato da giovane al senso del dovere imposto da una vocazione. «Forse – dice Cosentini – stiamo intuendo di cosa parliamo quando parliamo di essere umani. Sarebbe un peccato se essere umani fosse all’improvviso essere eroi». Tra questi letti, medici e infermieri stanno facendo molto di più. Fino all’altro giorno giravano i frati. La morte in ospedale si fa quasi sempre annunciare. Restava il tempo per una benedizione. Ora anche i frati sono malati, in quarantena, oppure al camposanto. Chi cura, quando vede arrivare il momento, recita il padrenostro e traccia una croce sulla fronte del malato. «Sappiamo a memoria il nome di tutti – dice il dottor Mohamed Amer – vogliamo che un sorriso sia l’ultima cosa vista sulla terra. La calma a volte sa fare prodigi». A Bergamo il muro alzato dal coronavirus tra il suo ospedale e l’universo, è un impasto di paura e di solitudine. La paura è sapere che la medicina ha le mani alzate. La solitudine è capire che quando tutti spariscono devi pensare a tutto quello che non hai fatto prima. «I parenti – dice Elisa, infermiera – non possono restare vicini. Ci chiedono di consegnare ai nonni i disegni dei nipoti. Ci passano biglietti pieni di cuori. Vogliono che i malati sappiano che loro li amano. Un figlio mi ha scritto su un foglio il testo di Azzurro di Celentano. L’ho cantata sottovoce nell’orecchio di suo padre. Era intubato, non poteva parlare. Ha capito e i suoi occhi si sono riempiti di lacrime». I primi giorni il Covid-19 era la peste dei vecchi. Adesso no. Nei letti è l’ora dei giovani e dei forti. «Hanno resistito a casa – dice il dottor Guido Bertolini – spesso non sentono la difficoltà di respirare. Poi arrivano, vedi i polmoni e sono un disastro.È duro perdere anche i figli delle prime vittime».
L’esercito non carica solo le bare. Nella notte voli militari distribuiscono malati a Berlino, Lipsia, Dresda, qualcuno in Austria. Nelle terapie intensive i letti sono finiti. Si deve decidere chi provare a salvare. Fuori si rimpiangono i negozi aperti e si tengono d’occhio le Borse. Dentro ancora si contano le bombole d’ossigeno e si va a caccia di una flebo per idratare. Bisogna saperlo: restare prigionieri in casa fa soffrire, ma in ospedale si lotta per i fondamentali della vita. La prima domanda, chiedendo di entrare, è stata: «Ha una mascherina personale? Qui sono finite». Un giorno qui insegna che sbaglia, chi dice che i medici sono abituati alla gente che muore. Sono abituati a quella che ricomincia a vivere. «Se quattro su dieci non escono più e dopo tre settimane devi staccare la macchina – dice Barbara, decana tra le infermiere delle terapie intensive – è un fallimento che rovescia un mare di stanchezza. Non ci spetta più il privilegio di non farcela: ai miei figli devo spiegare che cosa è la fragilità».
Come soldati disarmati
Anche per Fabrizio Fabretti, 59 anni, direttore del reparto e papà di due ragazzi, è riduttivo parlare di ventilazione e di assistenza circolatoria extracorporea. «Il problema – dice – è che nella shock-room i numeri non calano. Adesso arrivano persone che ricordano i salvati dalle valanghe, o gli annegati. Hanno paura perché ormai sanno che sopravvivere non è un fatto fisico, o anagrafico. Appesi a un filo, cercano di non perdere conoscenza. Restano a occhi aperti, temono che chiuderli significhi non risvegliarsi. Per un medico non conoscere la malattia e non avere una cura è come essere un soldato al fronte, di notte e disarmato». Non è una resa. È la verità. Per questo dentro il Papa Giovanni XXIII la resistenza può essere definita grandiosa. Infermieri e medici resistono, si ammalano, guariscono e muoiono come i loro pazienti. Il virus confonde camice e sudario. L’atmosfera è quella pressurizzata di un sommergibile rotto. Nel pomeriggio, con l’onda sismica della febbre, sale una calma, disperata e a tratti euforica complicità. Si sparge nel vuoto, anche dentro la pediatria. Per i bambini colpiti da tumori e leucemie c’erano una sala giochi, una scuola e una biblioteca. In 25, aspettando il trapianto, sorridevano insieme. Anche loro sono ora isolati dal virus, soli nel letto in una stanza chiusa. Non possono infettarsi, una mamma o un papà da oltre un mese dormono sigillati con i figli. Non sono nell’elenco delle vittime, ma nemmeno a loro il virus restituirà i fiori di questa primavera.
«Siate gentili – dice il dottor Cosentini – non lanciate appelli e non rifugiatevi già nella dolcezza di fare programmi. Per piacere, dite solo che noi siamo qui. Raccontate con precisione ciò che ancora sta succedendo. Non siate drammatici: il nostro incubo adesso è non venire creduti». Non hanno fatto grandi scoperte, ma i medici e gli infermieri che ovunque curano e che accarezzano, meritano il Nobel della medicina. «Un premio a chi – dice il dottor De Vecchi – a essere onesti vive per difendere la pace». Alla fine di un giorno tra loro e tra i malati, chiedono di «non dire e non mostrare tutto perché il velo della dignità non va sollevato». Abbiamo ubbidito.