La Stampa, 30 marzo 2020
All’Ospedale degli Incurabili di Napoli
È inevitabile che questo viaggio nei luoghi simbolo dell’Italia 2020, partito scendendo a una stazione (di Bologna) e imboccando una strada (di Roma), porti ora a un ospedale (di Napoli). L’ospedale è il tempio di questo presente, ne celebra la battaglia. È un simbolo, ha avuto un significato nel passato e si batte per averne uno nel futuro. Tra tutti, il più metaforico è un ospedale che non c’è più, malato come un corpo, che cerca di rinascere. Il suo nome è una sfida, la sua storia un esempio: se ce la farà ce la possiamo fare tutti. È l’Ospedale degli Incurabili di Napoli. Da un anno esatto è chiuso per un crollo. In un’alba di fine marzo del 2019 è collassato. Le sue secolari architetture, abbandonate all’incuria da oltre 150 anni, hanno ceduto.
L’ospedale era da tempo in condizioni gravi: infiltrazioni d’acqua e perdite fognarie ne avevano rese precarie le fondamenta. Gli antichi pozzi erano intasati da macerie della guerra. Gli allarmi suonavano, inascoltati. Le fessure continuavano a correre, aprendosi all’ipotesi della sciagura. La spezieria barocca, sontuosa magnificenza, esibiva crepe sul volto. Finché è venuto giù il soffitto della chiesa ed è partito l’ordine di sgombero: chiusi i reparti, svuotate le abitazioni, trasferiti come frettolosi fuggiaschi malati, infermieri e medici.
La martire postuma
Una notte d’inizio aprile il commissario regionale Ciro Verdoliva ha decretato il «Fuori tutti», girato un video straziante in cui spegne le ultime luci, chiude la porta e lascia degente la speranza di tornare. Sei mesi più tardi sono stati stanziati 100 milioni dalla Regione per finanziare il recupero, ma anche questo progetto ora si trova rallentato da altre emergenze. Non è solo un ospedale storico in gioco, è l’idea stessa di ospedale. Me ne rendo conto il giorno in cui il commissario mi consente di accedere alle stanze ancora agibili insieme con il vivace professor Gennaro Rispoli, chirurgo e storico della Sanità.
Gli Incurabili rappresentano un’idea e la sua sconfitta. Non escludono la rivincita, perché, come sempre, agli uomini occorre un trauma per risvegliarsi, capire, aggiornare la classifica dei valori. Questa epidemia che stiamo vivendo è il trauma collettivo oltre il quale riprogrammare la nostra vita sociale e con essa gli ospedali, che ne usciranno stressati, insufficienti, inabili. Sarà allora il tempo di recuperare questa lezione. Era una fine marzo anche allora, di 500 anni fa, quando una nobildonna catalana di nome Maria Laurenzia Longo inaugurò gli Incurabili. Era vedova e si dice miracolata dalla paralisi che l’affliggeva dopo l’avvelenamento da parte di una servitrice infedele. Di miracoli sarebbe stata costellata la storia dell’ospedale: un bombardamento durante la Seconda guerra risparmiò il padiglione dei neonati e abbatté invece la statua della fondatrice, «martire postuma».
Era stata lei a concepire la struttura come un luogo dove la guarigione fosse affidata anche al benessere dei pazienti. Confidò nell’etica curativa della bellezza. Gli architetti, per determinare la posizione, studiarono il flusso dei venti e la salubrità della collina. Una nuova e salvifica trinità era composta da scienza, arte e carità. Scienza perché qui operarono i più grandi maestri della medicina, da Cardarelli a Moscati, ma non si rinunciò a sperimentare variazioni alchemiche. Arte perché corridoi e soffitti mostravano capolavori: affreschi i cui eroi erano i volontari o avanguardistiche allegorie della matrice uterina mai osate altrove. Carità perché è stato creato con l’idea che le porte fossero aperte a tutti, di qualunque razza e censo: prostitute convertite, ragazze madri, carcerati trasformati in barellieri e becchini per affrontare le emergenze. E ve ne furono.
La peste del Seicento
Sostiene Rispoli che «per capire la cultura di un luogo bisogna studiarne le epidemie, i disastri sanitari, le reazioni alla malattia». A metà Seicento fu lasciato sbarcare a Napoli un soldato sardo con i sintomi della peste. Al medico che lo curò fu impedito di renderlo pubblico. Morì il soldato, morì il medico, ne furono bruciati vestiti e averi, ma il morbo dilagò. Le processioni per scongiurarlo non fecero che propagarlo. Governo e clero persero la rotta: chiusero tutti in casa. Nella tempesta solo gli ospedali furono porti, quello sulla collina più di ogni altro. Nelle sue sale vuote riecheggiano i passi di tutti coloro che provarono a curare o, quando non era possibile, aiutarono a morire meglio.
Ha vinto l’indifferenza
Per anni i notiziari televisivi ci hanno trasmesso, in fondo al rullo, immagini di malasanità: ambienti degradati, disordine, sporcizia, insoddisfazione di chi ci lavora e di chi ci viene ospitato. Nell’illusione della salute garantita, abbiamo lasciato che cadessero a pezzi i monumenti a un diverso modo di curare, all’idea che la forza rigeneratrice dell’ambiente possa contribuire alla guarigione. Ha vinto l’indifferenza, il cinismo pseudospecialistico.
Davanti al cancello chiuso degli Incurabili qualcuno ha scritto a vernice: «Nessun ospedale deve essere chiuso». Invece tanti ospedali sono stati abbandonati. «Riconvertiti» è stata l’espressione usata per giustificare, come se ci fosse un uso più impellente o più saggio. Ma quale? Musei, va bene. Uffici pubblici, e passi. Alberghi, davvero? E adesso corriamo controcorrente, a trasformare in improbabili ospedali gli alberghi. Attraversando distratti le nostre città ci capitava di passare davanti a edifici dismessi, di pregio architettonico, circondati da giardini mal curati e pensare: «Perché non ne fanno qualcosa?». Ne avevano fatto qualcosa, la cosa migliore che si potesse fare: un ospedale. Poi hanno pensato che fosse superfluo, non redditizio, d’intralcio. Adesso qualcuno propone di riaprire in fretta quelle vecchie strutture, forse più funzionali dei padiglioni fieristici per affrontare l’emergenza. E quando sarà passata? Ci ricorderemo che cosa era essenziale e come era meglio costruirlo? Verremo in pellegrinaggio sulla collina di Caponapoli per la riapertura di questo ospedale che 500 anni fa era più avanzato dei nostri calcoli e delle nostre paure? Sapremo fare ammenda e intervenire, giacché, come sta scritto su un muro del reparto cardiologico: «Meglij’ò bai-pass c’ò trapass»?