Corriere della Sera, 30 marzo 2020
Un racconto sul virus di Etgar Keret
Da quando è scoppiata la pandemia, finalmente sono riuscito a immaginare la mia morte. Non che non ci avessi provato prima, ma ogni volta che mi coricavo, chiudevo gli occhi e cercavo di figurarmi il mio ultimo respiro, c’era sempre qualcosa che andava storto. Se mi vedevo mentre perdevo il controllo alla guida in autostrada, per esempio, e andavo a sbandare tra le corsie, con il cruise control fissato a cento all’ora, tra lo strepito assordante dei clacson dei conducenti imbestialiti tutt’attorno, e appena prima dello schianto la mia auto rotolava verso la banchina, malgrado quegli attimi di terrore e lo scoppio degli airbag, alla fine, per qualche motivo, ne uscivo sempre illeso. E non si trattava soltanto di incidenti stradali. C’era di tutto nel mio repertorio: attacchi terroristici, liti furibonde con i vicini di casa, un infarto in diretta nel bel mezzo di un programma culturale alla tv di Stato. Per quanto mi sforzassi di immaginare un epilogo catastrofico, immancabilmente riuscivo a scamparla. Alcune di queste mie fantasticherie finivano con un’intervista al sottoscritto che, con i capelli in disordine, compariva nel telegiornale della sera. In altre, mi svegliavo in ospedale e mio figlio mi si precipitava addosso per stringermi tra le braccia. Ma gli incidenti si concludevano, malgrado ce la mettessi tutta, sempre senza vittime.
Poi è arrivato il coronavirus a sistemare ogni cosa. Adesso la sera, quando vado a letto, chiudo gli occhi e mi vedo in fin di vita, trasportato d’urgenza in ospedale per gravissima insufficienza respiratoria. I pochi dottori esausti che ancora si aggirano nel pronto soccorso affollato sembrano aver superato ogni limite di umana sopportazione. A un giovane medico, che vaga con lo sguardo annebbiato, mia moglie chiede gentilmente di visitarmi, spiegando che sono un caso a rischio elevato perché paziente asmatico. Il dottore la fissa, assente. Starà pensando a qualcos’altro. Forse alla sua morte, quando verrà il suo momento. O a farsi una doccia. Io mi sforzo di sorridere – ho letto da qualche parte che quando sorridi susciti empatia, è per questo che i truffatori sorridono sempre – e così sfodero il mio sorriso più accattivante. Se solo questo dottorino si degnasse di girare lo sguardo nella mia direzione, saprebbe subito leggere nella mia dolente umanità, e il sorriso sul mio volto spento gli riporterebbe alla memoria quello zio a cui era tanto affezionato da bambino e che era morto tragicamente in un’immersione subacquea. Ma non lo fa. Sta guardando qualcos’altro. Sta fissando un gigante irsuto con un’incipiente calvizie che è in piedi accanto alla guardiola delle infermiere e urla come un pazzo.
Dalle frasi sconnesse capisco che aspetta da più di tre ore che qualcuno venga a occuparsi di suo padre. Un’infermiera anziana, al banco, gli chiede di calmarsi. Invece di rispondere, il gigante irsuto si accende una sigaretta. Un agente di sicurezza, piccolo e tozzo, si precipita verso di lui e gli ordina di spegnerla, e il gigante irsuto dice che lo farà, ma solo quando un medico avrà visitato suo padre, non un istante prima. Mia moglie prova ad attirare l’attenzione del dottorino, ma lui la ignora e fa un passo verso il gigante e suo padre. Intanto mi rendo conto che, malgrado tutti i miei tentativi, non riesco a immettere aria nei miei polmoni. È come spingere contro una porta sbarrata, una sensazione che mi porto dietro dall’infanzia. La crisi asmatica, la conosco in tutti i suoi particolari. Ma allora c’era sempre un filino d’aria che riusciva a intrufolarsi nel mio petto, e i dottori sembravano attenti e premurosi, allora. Alzo lo sguardo su mia moglie. Sta piangendo, e questo mi manda su tutte le furie. Sono in punto di morte, l’ho capito e accettato. Posso andarmene da un momento all’altro. Ma perché quelle lacrime? Perché devo lasciare a questo modo la vita meravigliosa che ho goduto finora: basta sole, basta cielo azzurro, solo un gigante irsuto che va in escandescenze e mi soffia il fumo in faccia, e la mia cara moglie che si dispera? La morte dovrebbe essere come l’ultima puntata della serie televisiva della mia vita, tranne che, in realtà, poiché sono morto, non ci sarà più una nuova stagione. E chi mai vorrebbe vedere, nella scena conclusiva, una famiglia che singhiozza in un pronto soccorso affollato di gente stravolta? Dico «famiglia», ma in realtà mio figlio non è qui con noi. È rimasto a casa a giocare a Fortnite. O almeno era quello che stava facendo quando sono venuti a prendermi per portarmi in ospedale. Gli avevo chiesto di non accompagnarmi, perché temevo che potesse infettarsi nel pronto soccorso. Nell’era del coronavirus, non è una buona idea esporsi al contagio, neanche per i ragazzini. Inoltre, sono contento che mio figlio non sia qui ad assistere al mio decesso. Se ci fosse, e mia moglie si mettesse a piangere, scoppierebbe in lacrime anche lui: quando si tratta di emozioni, mio figlio è un follower. E poi la situazione si farebbe davvero pesante. Voglio dire qualcosa a mia moglie per rincuorarla, per distrarla, qualunque cosa per far cessare le sue lacrime. Ma non riesco più a emettere una sola parola. Sono morto. E poi non riesco più a riaddormentarmi.
Ne parlo con mia moglie. Lo so che i giorni del coronavirus non sono i migliori per abbordare certi argomenti, ma questa faccenda mi brucia dentro, come un’emorroide, e mi sento costretto a fare chiarezza. «Tutto qui?», mi chiede lei. «È questo che ti tormenta? Non che muori giovane, e che ti lasci dietro una moglie, un figlio e un coniglio, ma solo il fatto che mi metto a piangere?». Provo a spiegarle che il coronavirus, i miei polmoni malandati, il collasso del sistema sanitario, il gigante irsuto che fuma nel pronto soccorso – tutto questo è ineluttabile. Non c’è niente che io possa fare per cambiare le cose. Ma il suo pianto è una scelta. E per quel che mi riguarda, è una scelta che io trovo estremamente fastidiosa.
«D’accordo», ribatte mia moglie, con quella sua voce in apparenza conciliante, la voce che usa con i cani con la museruola che le abbaiano lungo la strada. «Allora quello che stai dicendo realmente è che, nel programmare il tuo scenario più catastrofico, vuoi che faccia anch’io la mia parte? Che mi prepari mentalmente, così quando muori davanti a me nel pronto soccorso, io saprò trattenere le lacrime?».
Annuisco con entusiasmo. Questo è un momento raro. Il più delle volte mia moglie non capisce esattamente quello che le chiedo.
«Perciò se ti prometto fin d’ora, che qualunque cosa succeda non piangerò e invece…che so…ti darò una strizzatina d’occhio?», azzarda mia moglie. Le spiego che non c’è bisogno di fare l’occhiolino, basterà che mi stringa la mano e resti calma e composta. Come quelle madri vestite a lutto che si affacciano alla televisione per chiedere al governo di non fare concessioni al terrorismo. Lo vedi che per loro è difficile, che hanno il cuore straziato, ma sanno infondere coraggio e salvare le apparenze. È molto più facile andarsene, quando sai che ti lasci dietro una moglie forte come una roccia. «Nessun problema – mi rassicura lei —. Se questo ti semplifica il trapasso, lo farò. Niente lacrime. Affare fatto».
Quella sera non riesco a prender sonno per l’ennesima volta. Mia moglie dorme, ascolto il suo respiro regolare al mio fianco, e quando chiudo gli occhi vedo scorrere tutti i particolari della mia dipartita: il dolore, il tubo fluorescente che tremola sopra il mio letto, l’aria che si rifiuta di scendere a riempire i miei polmoni. Sento la voce del gigante irsuto che strepita e l’infermiera anziana che prova a calmarlo. Faccio fatica a respirare, spingo quella porta con tutte le mie forze, ma è sbarrata. Accanto a me, la mia cara moglie è alla ricerca di un dottore. Lo sa che non ha senso cercarlo, ma non desiste. Non ho più aria nei polmoni, e lei lo intuisce. Mi fissa, e nei suoi occhi leggo che è arrivata la fine. Mi prende la mano e se la porta al viso. È forte, mia moglie, come le mamme alla tv, ma più dolce e serena. I suoi occhi verdi mi dicono: è un peccato che te ne stia andando, tesoro mio, ma tutto andrà per il meglio anche quando non ci sarai più. È allora che scivolo nel sonno.
(Traduzione di Rita Baldassarre)