Corriere della Sera, 30 marzo 2020
Il disastro mascherine
Il 22 gennaio – ossia ben 28 giorni prima del caso Codogno – il ministero della Salute scrive, e dunque sa, che il personale sanitario che dovrà occuparsi di casi di Covid-19, oltre ad adottare le misure standard di biosicurezza, dovrà indossare la mascherina protettiva adeguata. Il 4 febbraio i medici scrivono alle autorità chiedendo di provvedere ai rifornimenti di protezioni di sicurezza per gli operatori sanitari. Le forniture restano lettera morta. A epidemia conclamata solo il circuito sanitario della Lombardia ha bisogno di 1,1 milioni di mascherine al giorno, l’Emilia-Romagna di 500.000, il Veneto di 600.000. Ogni mese in Italia ne servono 90 milioni.
I fornitori esauriscono le scorte e pagano di tasca propria
La prima costretta a muoversi è la Lombardia. Già a ridosso del 20-21 febbraio solo pochi rifornimenti agli ospedali riescono ad arrivare dai fornitori storici che avevano vinto le gare e avevano stock in magazzino, gli altri avvengono in emergenza come quello della Crespi Enterprise. Le mascherine Ffp3, le migliori sul mercato, sono vendute a 3,39 euro, ma quelle arrivate dalla Cina a gennaio dal loro produttore a Wuhan, e ordinate un mese e mezzo prima, costano 9,6 euro. Poi più nulla. Nella stessa situazione i fornitori dell’Emilia-Romagna: compravano in Cina da aziende che producevano secondo gli standard di qualità europei, ma da gennaio non consegnano più. Da quel che risulta, fino a esaurimento scorte, nessuno ha applicato rincaro dei prezzi. In Veneto la Medline dirotta tutto solo sulla sanità veneta applicando gli stessi prezzi di aggiudicazione di due anni fa. Intanto l’epidemia si allarga e i fornitori cercano su altri mercati. La Comitec, che fornisce Emilia-Romagna e Marche, si rivolge alla Turchia e ordina milioni di pezzi certificati alla Edge Mask: le Ffp2 che prima erano vendute a 65 centesimi, salgono a 2,50 euro, le Ffp3 passano da 1 euro a 4,35. Consegnato il primo lotto da 200.000 (sborsati 670.000 euro) Erdogan le blocca il 5 marzo alla dogana di Ankara. A nulla serve l’implorazione del premier Conte. L’azienda ci ha rimesso i soldi, fine. La Lombardia ha 500.000 pezzi bloccati a Mumbai (India), e 100.000 l’Emilia-Romagna. A provvedere per tutto il territorio è incaricata la Protezione civile nazionale, attraverso la Consip con call internazionale: al 24 marzo i pezzi distribuiti alle regioni non raggiungono il 30% del fabbisogno reale.
Il mercato parallelo degli intermediari
In questa drammatica ricerca del principale presidio di protezione dal contagio per il personale sanitario, lavoratori essenziali e cittadini, fioriscono broker e aziende che si improvvisano come intermediarie. Dice Silvia Orzi, direttrice del Servizio acquisti ospedalieri per l’Emilia-Romagna: «A questo punto abbiamo cominciato a trattare con tutti, dai venditori di piastrelle a quelli dell’acciaio, che dicono di avere contatti personali con la Cina o altri Paesi, ed escludiamo chi non ci dà abbastanza garanzie. Forniamo una lettera di credito e paghiamo alla consegna, ma i primi ordini non sono mai arrivati, allora in alcuni casi anticipiamo il 10% con bonifico assicurato, alla fine qualcosa arriva, ma in termini ridotti rispetto a quello promesso».
Rubate, bloccate, perse in giro per il mondo
Il primo contratto è dell’ultima settimana di febbraio con la «Med 24» di Bologna, che promette 2 milioni di mascherine chirurgiche dal Brasile a 40 centesimi Iva compresa. Parte l’ordine il 26 febbraio: pagamento 50% alla consegna e saldo a 60 giorni. Le mascherine fanno tappa a Bangkok, per sbloccarle interviene la Farnesina. Ripartono per l’Italia via Londra. E lì si fermano in un deposito in città. La «Med 24» interpellata dice: «Ci sono problemi con i trasporti». Hanno trattato con la Bcm di Modena che commercializza metalli, consegna dopo una settimana e pagamento a sette giorni. Alla fine scrivono che il carico resta a Shanghai perché i cinesi vogliono pagamento cash. Si propone la ditta Linea Agri (fa vendite online): ordinate il 13 marzo 100.000 mascherine chirurgiche e 539 tute protettive. Il 23 marzo arriva la email: «Purtroppo la merce ci è stata rubata prima dell’arrivo in Italia. Ci scusiamo per il disagio».
La Farmaceutica internazionale di Gravellona Toce importa farmaci, ora anche mascherine tramite il loro grossista. Ordinati 1 milione di pezzi, Ffp2 con valvola, costo 7,40 euro l’una. Arrivato un lotto da 60.000 la prima settimana di marzo, poi più nulla. Il carico è stato fermato prima a Dubai e poi in Canada. «Le dogane hanno cominciato a bloccare perché giravano brand falsi e senza certificazione – dicono – ma dovrebbero arrivare in Italia il 30 marzo».
Dalla produzione di piastrelle fino alle mascherine
Alla Centrale acquisti di Parma propone via WhatsApp qualche milione di mascherine Ffp2 Ettore Ricchi di Maranello, venditore di ceramiche in Cina: «2,8 dollari l’una, più i costi del trasporto, da quantificare, bonifico anticipato». Il dialogo si ferma subito. Ricchi sostiene di averne già acquistate 200.000, che le venderà a 2 euro: un po’ ad una farmacia di Roma di via Cassia, qualche migliaia glieli ha chiesti il comando dei Carabinieri di Sassuolo (che smentiscono), e 130.000 alla Sensor Medics di Milano che ha già versato il bonifico. La Sensor (che compra direttamente dai produttori cinesi e indiani) e fornisce molte strutture lombarde, si fida: «Abbiamo comprato questo piccolo lotto per fare un favore a un politico che ce lo ha raccomandato, in realtà non abbiamo bisogno di utilizzare broker». In Lombardia il film è più o meno lo stesso, idem in Veneto dove un intermediario, che aveva già intascato un anticipo, vende a 3 soggetti diversi un carico da 500.000 mascherine, e agli ospedali non arriva niente.
Il costo dei trasporti a peso d’oro
I rivenditori che sono riusciti a prendere le forniture in Cina oggi devono pagare il charter che prima chiedeva 60/80 mila euro e adesso costa 500.000 euro, perché non deve più competere con i voli di linea che le caricavano nelle stive. E quindi tutto rincara: le tute protettive, che costavano 13 euro, oggi a meno di 20 non si trovano.
Le mascherine chirurgiche arrivate in Lombardia sono passate da 10-30 centesimi a 1,4 euro. Inoltre, su 123 milioni di pezzi – fra chirurgiche, Ffp2 e Ffp3 – ordinati dalla Centrale acquisti, al 24 marzo ne sono arrivati solo 6,3 milioni. Quel che basta per una settimana.
Il commissario accentra i sequestri della dogana
I broker comprano grosse partite con la lettera di credito delle centrali acquisti, ma succede che solo una parte viene mandata agli ospedali, il resto va sul mercato online o ad altri canali. L’articolo 6 del decreto 18 del 17 marzo prevede che tutto il materiale non destinato a servizi essenziali o salute pubblica, venga sequestrato e consegnato agli ospedali. Il Centro estetico di Napoli acquista 20.000 mascherine Ffp2 dalla Turchia per i suoi operatori, ma contemporaneamente si fa il sito Internet per rivenderle a 6 euro l’una. A un’azienda di Vicenza viene bloccato un carico di mascherine chirurgiche acquistate in Tunisia in esportazione sotto forma di materiale idraulico. Una parafarmacia ne aveva accumulate 30.000 in un magazzino della Nomentana, destinate al mercato su Internet, spacciate per Ffp2 con certificazione Ce falsa. A Verona ne arrivano 30.000 destinate a un Comune del Veneto che ne aveva però ordinate 10.000.
In cinque giorni l’agenzia delle Dogane confisca 1 milione e mezzo di mascherine, 2,7 milioni di guanti, 1.840 dispostivi di ventilazione, 4.398 apparecchi medicali, 23 aspiratori chirurgici, 50.000 apparecchi per la terapia intensiva. Il materiale immediatamente sbloccato viene inviato lo stesso giorno agli ospedali attraverso la Protezione civile locale. L’indennità spettante ai proprietari verrà liquidata dal Commissario straordinario. Il Commissario Arcuri ha però deciso che tutto il materiale sequestrato deve essere accentrato presso la Protezione civile nazionale, che poi deciderà a quali strutture ridistribuirlo. Quindi si strozza tutto nel collo di bottiglia della burocrazia romana, mentre le Protezioni civili regionali si affannano nella ricerca di ventilatori polmonari e aspiratori chirurgici, disponibili in depositi a pochi metri da loro in attesa che si decida dove debbano andare.
Cosa sta bloccando la produzione italiana
L’articolo 15 dello stesso decreto autorizza la produzione di guanti e mascherine per uso medicale e per i lavoratori, in deroga alle norme Ce. Molte aziende, grandi e piccole, si sono attivate per la riconversione della loro attività, ma prima di partire con gli investimenti vogliono avere certezze sul fatto che nessuno contesti poi la sicurezza del prodotto. È richiesta l’autocertificazione del produttore, ma secondo quale criterio?
In Germania l’autorità sanitaria ha disposto un protocollo semplificato da seguire. In Italia quaranta produttori si sono rivolti a Italcert e società che testano i materiali per avere indicazioni, le quali hanno definito una procedura semplificata che è stata inviata all’Inail e all’Istituto superiore di Sanità (Iss). Tempo previsto per la risposta: tre giorni. Inail l’ha subito bocciata: occorre seguire la procedura standard (che richiede qualche mese); l’Iss dopo dieci giorni ancora non si pronuncia. Nel mentre, le aziende che sarebbero pronte alla riconversione, sono ferme. Altre hanno iniziato la produzione, ma sono bloccate comunque dalle autorizzazioni romane.
In compenso nel decreto, accanto alla frase che autorizza la produzione in deroga alle norme vigenti, è stata inserita la parola «e importazione». Un grande vantaggio per i produttori stranieri di dispositivi fatti con materiali scadenti, e che le dogane non possono più fermare perché basta l’autocertificazione del produttore.
Una norma nata per favorire il mercato interno e soddisfare l’enorme richiesta di protezione per operatori sanitari, lavoratori e cittadini, è diventata anche una manna per quei grossi broker che comprano «robaccia» dal produttore indiano o cinese.